DISCORSO SOPRA L'ITALIA, PATRIA MAI NATA
di
Michele Filipponi
- Capitolo X -
Non v'è dubbio che la raggiunta unità nazionale sotto lo casato monarchico de' Savoia ti portò a misera condizione, Italia mia. Non v'è dubbio che lo piccolo e indebitato staterello piemontese non fece altro ch'allargare i suo' confini, pure profittando de l'immense ricchezze bancarie de lo Regno delle due Sicilie; che sebben in forte crisi e oramai osteggiato dal su' popolo per la politica reazionaria e la pessima spartizion delle risorse sul territorio, fu comunque al tempo economicamente molto più florido de tutti gli altri staterelli pre-unitari messi assieme e meglio gestito, quantomeno a Napoli e dintorni, da' tanto odiati Borboni, che nonostante tutto potean vantar numerosi primati nel Regno loro in svariati campi; quali la cultura, l'infrastrutture, la tecnologia, i trasporti, la gestione de' rifiuti, l'industria e tant'altri. Oltre ad aver la più bassa tassazione europea a differenza de li pluritassati stati nordici. Non v'è dubbio dunque che vòtando lo Banco di Napoli (all'epoca colmo di 443 milion di Ducati) i Savoia acquisirono lo dominio e cominciarono la completa desertificazione et espropriazione delle ricchezze e de le fabbriche meridionali che portaron ben presto a lo conseguente sfruttamento e inevitabile impoverimento del Sud. Nacque così 'l sacrosanto brigantaggio tanto 'nfangato dalla storiografia ufficiale scritta da' sabaudi e sempre difeso dall'Eroe Nizzardo e dal Mazzini che co' lo governo piemontese videro entrambi traditi i loro sogni d'Italia giusta. Non v'è dubbio che codesto fenomeno di rivolta ed eroica resistenza non fu mai giustamente celebrato ed anzi fu al tempo barbaramente soppresso et in seguito malamente insabbiato da lo sanguinario Regno Italiano.
Ricorda 'l brigante Crocco[1] Italia mia, che combatté col Generale e Ninco Nanco[2] e le donne lucane e calabresi e tant'altri che più oramai non han volti e voce ma che dal tempio celeste dell'Itale Glorie esigon da' posteri rimembranza, per le 'ngiustizie e i soprusi e per l'indomito coraggio dimenticato. Ricorda i loro volti e i lor nomi, lor che volti e nomi più non hanno, mozzate le teste da sciabola sabauda, Italia mia codesti morti gloriosi debbon essere i figli a te più cari. Imperocché non giacciono all'ombra dolce de' cipressi o dentro l'urne, ma sparsi ne la terra per cui spiraron; come concime la lor polvere agnede affidata alle ortiche di deserta gleba, ove né donna innamorata prega, né passeggier solingo ode il sospiro che dal tumulo a noi manda Natura[3], questi meriterebbero la gloria, imperitura, sottratta loro dal tiranno. A cui, come sempre a scapito de' giusti, toccò 'nseguito marmoreo ricordo alla faccia loro in Roma, spianando 'l Torrion di Paolo III e l'Arco di San Marco[4] e uno quartiere sano per innalzarsi lo maestoso monumento innanzi a' sudditi.
Ricorda 'l brigante Crocco[1] Italia mia, che combatté col Generale e Ninco Nanco[2] e le donne lucane e calabresi e tant'altri che più oramai non han volti e voce ma che dal tempio celeste dell'Itale Glorie esigon da' posteri rimembranza, per le 'ngiustizie e i soprusi e per l'indomito coraggio dimenticato. Ricorda i loro volti e i lor nomi, lor che volti e nomi più non hanno, mozzate le teste da sciabola sabauda, Italia mia codesti morti gloriosi debbon essere i figli a te più cari. Imperocché non giacciono all'ombra dolce de' cipressi o dentro l'urne, ma sparsi ne la terra per cui spiraron; come concime la lor polvere agnede affidata alle ortiche di deserta gleba, ove né donna innamorata prega, né passeggier solingo ode il sospiro che dal tumulo a noi manda Natura[3], questi meriterebbero la gloria, imperitura, sottratta loro dal tiranno. A cui, come sempre a scapito de' giusti, toccò 'nseguito marmoreo ricordo alla faccia loro in Roma, spianando 'l Torrion di Paolo III e l'Arco di San Marco[4] e uno quartiere sano per innalzarsi lo maestoso monumento innanzi a' sudditi.
“Ahi Vittoriano, di bellezza immensa
altare sei grandioso così bianco,
in marmo botticino per celanza,
del sangue partigian c'hai sotto 'l manto.”
Codesta è la fine di tutte le storie del mondo, e lor non fecero eccezione.
Così perirono i briganti e 'nfamia li ricopre.
Avea ragione il Rapisardi: “Senza pianto una zolla e senza fiori, terrà chi invan sfidò numi e tiranni”[5]. Et io oggi a quale scopo e con che speme canto di lena per denunciar gli scempi, se uomini tanto grandi pria di me persero partita? Se fecer mille volte quel ch'io faccio e mille volte meglio e con più forza, eppur caddero? Che senso ha Italia mia, questo continuo spendersi che porta solo a spegnersi pian piano? Questo sbattersi e cadere e poi risorgere e affrettarsi sanza posa o ristoro per poi fallire in sull'ultimo, poiché tale come direbbe 'l dolce Giacomo, è la vita mortale[6]. Forse che per sovvertir lo trono serve insistenza? Potrebbe darsi, ma di quella misurata su scala di vita celeste e non terrena perocché gli anni dell'uomo giammai non vider giustizia se non per brevi istanti nella storia, come 'l pendolo de lo filosofo tedesco ch'oscilla fra noia e dolore[7]; così la giustizia tale alla felicità è un battito d'ale, un momento effimero, un nonnulla, che quand'arriva è già svanito.
1.
Carmine
Crocco, detto Donatello
(Rionero in Vulture, 5 giugno 1830 – Portoferraio, 18 giugno 1905),
è stato un brigante italiano, tra i più noti e rappresentativi del
periodo risorgimentale. Era il capo indiscusso delle bande del
Vulture, sebbene agissero sotto il suo controllo anche alcune
dell'Irpinia. Nel giro di pochi anni, da umile bracciante divenne
comandante di un esercito di duemila uomini e la consistenza della
sua armata fece della Basilicata uno dei principali epicentri del
brigantaggio post-unitario nel Mezzogiorno continentale. Dapprima
militare borbonico, disertò e si diede alla macchia. In seguito,
combatté nelle file di Garibaldi, poi per la reazione legittimista
borbonica e infine per sé stesso, distinguendosi da altri briganti
del periodo per chiara e ordinata tattica bellica e imprevedibili
azioni di guerriglia che gli valsero numerosi appellativi come
“Generale dei Briganti”, “Generalissimo” e “Napoleone dei
Briganti”. Arrestato nel 1864 dalla gendarmeria dello stato
pontificio, ove aveva tentato di trovar riparo, venne processato nel
1870 da un tribunale italiano. Fu condannato a morte e poi
all'ergastolo nel carcere di Portoferraio dove morì all'età di 75
anni.
2.
Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco Nanco
(Avigliano, 12 aprile 1833 – Frusci, 13 marzo 1864), è stato un
brigante italiano. Uno dei più devoti luogotenenti di Carmine
Crocco, fu protagonista di numerose rappresaglie ai danni di ricchi
possidenti e militari del regio esercito. Morì
a 31 anni, giustiziato assieme al fratello dalla Guardia Nazionale
Italiana il 13 marzo del 1864.
3.
Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, versi
47-50
4.
Il Monumento
nazionale a Vittorio Emanuele II, meglio conosciuto con il
nome di Vittoriano o
Altare della Patria è
un monumento nazionale progettato da Giuseppe Sacconi, posto sul
Campidoglio a Roma. Da quando, nel 1921, accolse le spoglie del
Milite Ignoto, il monumento assunse una nuova valenza simbolica e
quello che era stato pensato inizialmente come monumento dinastico,
divenne definitivamente una celebrazione dell'Italia unita e della
sua libertà. Per erigerlo fu necessario, fra il 1885 e il 1888,
procedere a numerosi espropri e demolizioni nella zona adiacente il
Campidoglio, effettuati grazie a un preciso programma stabilito dal
primo ministro Agostino Depretis. Si procedette così alla
demolizione di un vasta area di origine medioevale abbattendo la
Torre di Paolo III, il cavalcavia di collegamento con palazzo Venezia
(l'arco di S. Marco), i tre chiostri del convento dell'Ara
Coeli e tutta l'edilizia minore presente sulle pendici del colle.
5.
Mario Rapisardi (Catania, 25 febbraio 1844 –
Catania, 4 gennaio 1912) fu un poeta e docente universitario
catanese, soprannominato “il Vate Etneo”. La frase in
questione è citata nel “Commentario Rapisardiano”.
6.
Rivisitazione dei versi 30 e 38 del “Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia” di
Giacomo Leopardi, contenuto
nei Canti, raccolta
poetica uscita nel 1835
7.
Si fa qui riferimento alla massima filosofica
di uno dei più grandi pensatori tedeschi del XIX secolo, nonché di
tutta la filosofia occidentale moderna, Arthur Schopenhauer (Danzica,
22 febbraio 1788 – Francoforte sul Meno, 21 settembre 1860) che
nella sua opera Il mondo come volontà e rappresentazione ebbe
a dire: “La vita umana è come un pendolo che oscilla
incessantemente tra il dolore e la noia, passando per
l'intervallo fugace e per di più illusorio, del piacere e della
gioia”.