giovedì 30 aprile 2015

"Discorso sopra l'Italia, patria mai nata" - Capitolo X


DISCORSO SOPRA L'ITALIA, PATRIA MAI NATA
di
Michele Filipponi



- Capitolo X -


Non v'è dubbio che la raggiunta unità nazionale sotto lo casato monarchico de' Savoia ti portò a misera condizione, Italia mia. Non v'è dubbio che lo piccolo e indebitato staterello piemontese non fece altro ch'allargare i suo' confini, pure profittando de l'immense ricchezze bancarie de lo Regno delle due Sicilie; che sebben in forte crisi e oramai osteggiato dal su' popolo per la politica reazionaria e la pessima spartizion delle risorse sul territorio, fu comunque al tempo economicamente molto più florido de tutti gli altri staterelli pre-unitari messi assieme e meglio gestito, quantomeno a Napoli e dintorni, da' tanto odiati Borboni, che nonostante tutto potean vantar numerosi primati nel Regno loro in svariati campi; quali la cultura, l'infrastrutture, la tecnologia, i trasporti, la gestione de' rifiuti, l'industria e tant'altri. Oltre ad aver la più bassa tassazione europea a differenza de li pluritassati stati nordici. Non v'è dubbio dunque che vòtando lo Banco di Napoli (all'epoca colmo di 443 milion di Ducati) i Savoia acquisirono lo dominio e cominciarono la completa desertificazione et espropriazione delle ricchezze e de le fabbriche meridionali che portaron ben presto a lo conseguente sfruttamento e inevitabile impoverimento del Sud. Nacque così 'l sacrosanto brigantaggio tanto 'nfangato dalla storiografia ufficiale scritta da' sabaudi e sempre difeso dall'Eroe Nizzardo e dal Mazzini che co' lo governo piemontese videro entrambi traditi i loro sogni d'Italia giusta. Non v'è dubbio che codesto fenomeno di rivolta ed eroica resistenza non fu mai giustamente celebrato ed anzi fu al tempo barbaramente soppresso et in seguito malamente insabbiato da lo sanguinario Regno Italiano.
Ricorda 'l brigante Crocco
[1] Italia mia, che combatté col Generale e Ninco Nanco[2] e le donne lucane e calabresi e tant'altri che più oramai non han volti e voce ma che dal tempio celeste dell'Itale Glorie esigon da' posteri rimembranza, per le 'ngiustizie e i soprusi e per l'indomito coraggio dimenticato. Ricorda i loro volti e i lor nomi, lor che volti e nomi più non hanno, mozzate le teste da sciabola sabauda, Italia mia codesti morti gloriosi debbon essere i figli a te più cari. Imperocché non giacciono all'ombra dolce de' cipressi o dentro l'urne, ma sparsi ne la terra per cui spiraron; come concime la lor polvere agnede affidata alle ortiche di deserta gleba, ove né donna innamorata prega, né passeggier solingo ode il sospiro che dal tumulo a noi manda Natura[3], questi meriterebbero la gloria, imperitura, sottratta loro dal tiranno. A cui, come sempre a scapito de' giusti, toccò 'nseguito marmoreo ricordo alla faccia loro in Roma, spianando 'l Torrion di Paolo III e l'Arco di San Marco[4] e uno quartiere sano per innalzarsi lo maestoso monumento innanzi a' sudditi.

“Ahi Vittoriano, di bellezza immensa
altare sei grandioso così bianco,
in marmo botticino per celanza,
del sangue partigian c'hai sotto 'l manto.”

Codesta è la fine di tutte le storie del mondo, e lor non fecero eccezione.
Così perirono i briganti e 'nfamia li ricopre.
Avea ragione il Rapisardi: “Senza pianto una zolla e senza fiori, terrà chi invan sfidò numi e tiranni
[5]. Et io oggi a quale scopo e con che speme canto di lena per denunciar gli scempi, se uomini tanto grandi pria di me persero partita? Se fecer mille volte quel ch'io faccio e mille volte meglio e con più forza, eppur caddero? Che senso ha Italia mia, questo continuo spendersi che porta solo a spegnersi pian piano? Questo sbattersi e cadere e poi risorgere e affrettarsi sanza posa o ristoro per poi fallire in sull'ultimo, poiché tale come direbbe 'l dolce Giacomo, è la vita mortale[6]. Forse che per sovvertir lo trono serve insistenza? Potrebbe darsi, ma di quella misurata su scala di vita celeste e non terrena perocché gli anni dell'uomo giammai non vider giustizia se non per brevi istanti nella storia, come 'l pendolo de lo filosofo tedesco ch'oscilla fra noia e dolore[7]; così la giustizia tale alla felicità è un battito d'ale, un momento effimero, un nonnulla, che quand'arriva è già svanito.




1.  Carmine Crocco, detto Donatello (Rionero in Vulture, 5 giugno 1830 – Portoferraio, 18 giugno 1905), è stato un brigante italiano, tra i più noti e rappresentativi del periodo risorgimentale. Era il capo indiscusso delle bande del Vulture, sebbene agissero sotto il suo controllo anche alcune dell'Irpinia. Nel giro di pochi anni, da umile bracciante divenne comandante di un esercito di duemila uomini e la consistenza della sua armata fece della Basilicata uno dei principali epicentri del brigantaggio post-unitario nel Mezzogiorno continentale. Dapprima militare borbonico, disertò e si diede alla macchia. In seguito, combatté nelle file di Garibaldi, poi per la reazione legittimista borbonica e infine per sé stesso, distinguendosi da altri briganti del periodo per chiara e ordinata tattica bellica e imprevedibili azioni di guerriglia che gli valsero numerosi appellativi come “Generale dei Briganti”, “Generalissimo” e “Napoleone dei Briganti”. Arrestato nel 1864 dalla gendarmeria dello stato pontificio, ove aveva tentato di trovar riparo, venne processato nel 1870 da un tribunale italiano. Fu condannato a morte e poi all'ergastolo nel carcere di Portoferraio dove morì all'età di 75 anni.

2.   Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco Nanco (Avigliano, 12 aprile 1833 – Frusci, 13 marzo 1864), è stato un brigante italiano. Uno dei più devoti luogotenenti di Carmine Crocco, fu protagonista di numerose rappresaglie ai danni di ricchi possidenti e militari del regio esercito. Morì a 31 anni, giustiziato assieme al fratello dalla Guardia Nazionale Italiana il 13 marzo del 1864.

3.   Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, versi 47-50

4.   Il Monumento nazionale a Vittorio Emanuele II, meglio conosciuto con il nome di Vittoriano o Altare della Patria è un monumento nazionale progettato da Giuseppe Sacconi, posto sul Campidoglio a Roma. Da quando, nel 1921, accolse le spoglie del Milite Ignoto, il monumento assunse una nuova valenza simbolica e quello che era stato pensato inizialmente come monumento dinastico, divenne definitivamente una celebrazione dell'Italia unita e della sua libertà. Per erigerlo fu necessario, fra il 1885 e il 1888, procedere a numerosi espropri e demolizioni nella zona adiacente il Campidoglio, effettuati grazie a un preciso programma stabilito dal primo ministro Agostino Depretis. Si procedette così alla demolizione di un vasta area di origine medioevale abbattendo la Torre di Paolo III, il cavalcavia di collegamento con palazzo Venezia (l'arco di S. Marco), i tre chiostri del convento dell'Ara Coeli e tutta l'edilizia minore presente sulle pendici del colle.

5.   Mario Rapisardi (Catania, 25 febbraio 1844 – Catania, 4 gennaio 1912) fu un poeta e docente universitario catanese, soprannominato “il Vate Etneo”. La frase in questione è citata nel “Commentario Rapisardiano”.

6.   Rivisitazione dei versi 30 e 38 del “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia” di Giacomo Leopardi, contenuto nei Canti, raccolta poetica uscita nel 1835

7.   Si fa qui riferimento alla massima filosofica di uno dei più grandi pensatori tedeschi del XIX secolo, nonché di tutta la filosofia occidentale moderna, Arthur Schopenhauer (Danzica, 22 febbraio 1788 – Francoforte sul Meno, 21 settembre 1860) che nella sua opera Il mondo come volontà e rappresentazione ebbe a dire: “La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore e la noia, passando per l'intervallo fugace e per di più illusorio, del piacere e della gioia”.
 

martedì 21 aprile 2015

"Discorso sopra l'Italia, patria mai nata" - Capitolo IX


DISCORSO SOPRA L'ITALIA, PATRIA MAI NATA
di
Michele Filipponi


- Capitolo IX - 

Altro bagno de folla vi fu poi al Crystal Palace ove 'l Generale tenne un animato discorso cui non fecer molto caso le dame londinesi ch'eran accorse piuttosto per vederlo dal vivo e che lo supplicarono ne' giorni successivi, con lettere profumate di donare loro una ciocca de' suo' capelli. E così fecero altrettanto le domestiche negli alberghi in cui Egli soggiornò, raccogliendo li biondi capelli rimasti incastrati nel pettine e vendendo alla porta di servizio bottiglie dell'acqua con cui l'Eroe si lavava la faccia al mattino. S'aprì così un vero e proprio mercato nero di reliquie garibaldine e una vasta industria di souvenir ancor oggi in uso come le tazzone da tè con l’effigie barbuta e i portaceneri e le scatole di cioccolatini e cuscini a punto croce e statuette dell'Eroe a cavallo o in palla di vetro con effetto neve e oleografie a migliaia di copie ove i tratti del Nizzardo si stilizzavano sino a sfumare in icona quasi messianica. Visitò in seguito la tomba del Foscolo[1] a Chiswick recitando a memoria i versi de' “I sepolcri” di fronte a' dignitari di Stato, che lo supplicavano di stabilirsi in Inghilterra a carico loro. Eppure lo Nizzardo ai salotti buoni de' potenti e ai ricevimenti loro a cui era obbligato per raccoglier simpatie in favore della causa italiana ma dove spesso la noia lo assaliva, sempre preferì le strade popolari ove poteva incontrare gente semplice e lavoratori e dove bambini che lo circondavano nelle umide vie di Londra andavano cantando filastrocche anticlericali in suo onore, come quella che diceva: “We’ll get a rope / And hang the Pope / So up with Garibaldi[2].
Presenziò instancabile in molte fabbriche e ne le assemblee de' sindacati e ne le società operaie inglesi, ove ebbe a congratularsi col proletariato britannico, “La classe - diceva l'Eroe - a cui mi onoro di appartenere”. Una sola persona in tutto 'l Regno, non a caso, fu disgustata dall'idolatria trasversale degli inglesi e fu la Regina Vittoria che in merito a tali bagni di folla ebbe a dire: “C'avrà mai questo Garribaldi! Quasi mi vergogno di governare una nazione capace di simili follie!”. Proprio come per lo Re di Casa Savoia un'altra monarca sentì offuscata la su' figura da quella de lo baldo Generale.
E questo fu l'uomo. Codesta la su' fama, che nel mondo s'espanse sanza radio e televisione. Et io qui, umilmente, su codeste pagine vergate con amore lo celebro. Dal 'l momento che la storiografia successiva non gli rese giammai giustizia sminuendo troppo spesso la su' grandezza, consegnando a' posteri una figura simbolica sbiadita e relegando lo studio del personaggio suo a mera appendice ne' libri scolastici, non posso io sottrarmi al bisogno che sento in veste di figlio e di devoto ammiratore, d'onorare l'uomo che più d'ogne altro si batté per codesta mia Patria dannata.
L'uomo che fu brigante, pirata, soldato, insegnante, agricoltore e maniscalco, scrittore e marinaio, politico e poeta. Inviso a' tiranni e indifferente al danaro, morto nella su' austera fattoria, il ribelle, il sovversivo, il guerrigliero, l'apolide giustiziere e 'l patriota, l'esiliato e il partigiano, il Gaucho, l'operaio e il rivoluzionario. L'immenso genio militare e 'l pacifista 'n vecchiaia, l'incubo de' francesi e austriaci, el Diablo sudamericano, l'animalista, il cospiratore, l'affrancator di schiavi e 'l ricercato Joseph Pane
[3], l'anticlericale e 'l fervente apostolo, l'eroe popolare, la leggenda, il romantico sognatore, il mito, l'italiano: Giuseppe Garibaldi.


1.   Niccolò Ugo Foscolo (Zante, 6 febbraio 1778 – Londra, 10 settembre 1827) è stato un poeta e scrittore italiano, nonché uno dei principali letterati del neoclassicismo e del preromanticismo a cavallo fra Settecento e Ottocento. Morì povero a soli 49 anni durante uno dei suoi esili volontari a Londra e fu sepolto a Chiswick. Dopo l'Unità d'Italia, nel 1871, le sue ceneri furono riportate per decreto del governo italiano in patria e inumate nella Basilica di Santa Croce a Firenze, il Tempio dell'Itale Glorie da lui cantato nei Sepolcri, la sua opera poetica più famosa scritta nel 1806.

2.  In italiano: “Prenderemo una corda / e ci impiccheremo il Papa / evviva Garibaldi!”

3.   Joseph Pane fu il nome falso che usò Garibaldi da ricercato per scappare dopo l'insurrezione popolare in Piemonte del 1834.


lunedì 6 aprile 2015

"Discorso sopra l'Italia, patria mai nata" - Capitolo VIII


DISCORSO SOPRA L'ITALIA, PATRIA MAI NATA
di
Michele Filipponi


- Capitolo VIII -


L'Eroe nostro, in piedi sulle staffe del cavallo co' proiettili de' bersaglieri che fischiavano tutt'attorno, correva e si sbracciava sgolandosi contro i suoi di non rispondere al fòco de' fratelli italiani. E mentre questo faceva, venne due volte colpito tanto all'anca che al malleolo e gridando forte “Viva l'Italia”, sanguinante col cappello in mano salutava i fratricidi stretto da le lacrime de' suoi fedeli uomini, prima di cadere da cavallo.... e così cadde, come corpo morto cade.[1]
Eppuro, nonostante ogne tentativo, nonostante lo trasporto di 12 ore per condurlo in carcere, sanza cure mediche ne la speranza che i disagi e lo strapazzo del viaggio avessero la meglio, nonostante che da prigioniero rimase più giorni sanza un letto di ricambio, sanza bende, né garze, né filacce, né alcun che per sopravvivere a tali ferite, lo destino volle che l'ultim'ora per lo General nizzardo non giugnesse ancora. Et in seguito a lo gran clamore suscitato 'n tutto 'l mondo da lo ferimento per mano di fòco italiano e dalla sua detenzione, mentre lo baffuto Re elargiva promozioni a' vili bersaglieri che attentarono l'Eroe e tramava per sottoporlo a processo come un malfattore comune, si trovò costretto dall'opinione pubblica mondiale a conceder invece l'amnistia, tanto che quando lo Generale lo venne a sapere con riso beffardo, da dietro le sbarre rispose: “Qual buffonata... son io che devo accordare l'amnistia a lui!”. Garibaldi... non basterebbero 100 vite intere per far tutto quello che lui fece in una sola, la sua. E per spiegare alle genti d'oggi quanto maggiore fosse la su' fama in vita nel mondo rispetto a' giorni nostri, ove comunque 'l suo nome risuona imperituro, questo mi sarebbe forse possibile solamente raccontando ciò che accadde dopo l'amnistia e i fatti dell'Aspromonte, o almeno potrà può darsi render l'idea dell'universalità epica che tale uomo ebbe a suo tempo sulla Terra.
Quando nell'aprile del 1864, oramai praticamente confinato ne la su' Caprera ma ancora indomito e non persuaso di prender Roma, fu invitato in Inghilterra per vari incontri tra cui quello con l'ex primo ministro Palmerston (che aveva in passato appoggiato l'impresa garibaldina in Uruguay) e per trovar in sostanza nòvi finanziamenti per mòver sommossa in Italia, appena si venne a saper che lo General nizzardo accettava l'invito, una compagnia di navigazione inglese mandò uno suo piroscafo appositamente, deviandolo dal normale tragitto, a prendere l'Eroe ne la su' isola. E quando questi l'11 aprile giugneva a largo del porto di Southampton, base navale de la flotta di sua maestà britannica, ella organizzò in suo onore una manovra a fuoco per salutarlo, mentre le sirene sònavano e migliaia di persone attendevano sulla banchina, d'ogne rango e classe sociale, per omaggiar l'Eroe. V'eran delegazioni di minatori gallesi e d'operai industriali, filandere scozzeri e uno gran mazzo di Pari d'Inghilterra con mogli al seguito e fidanzate e sorelle 'n trepidante attesa di poter estorcere all’Eroe un pelo de la su' barba o un filo de' suo' capelli; e la crème della crème degli intellettuali inglesi guidati da Carlyle[2], e l’universo de' rifugiati politici d’Europa, e lo sindaco della città naturalmente, e 'l popolo tutto compreso di straccioni e mendicanti. Sei ore impiegò l'Eroe per arrivare da la banchina al prato ove le genti non volevano lasciarlo andare. Giunto alla stazione di Southampton, un treno speciale coperto interamente di bandiere tricolori, lo aspettava per portarlo a Londra; non sanza difficoltà per via de le folle che di stazione in stazione occupavano i binari, costringendo 'l treno a continue soste. Arrivato ne la capitale a Garibaldi ci vollero altre 5 ore per fare 'l percorso in carrozza dalla stazione londinese a Trafalgar Square, ove un milione di persone in piazza lo attendevano. E quivi si parla d'un milione secondo la questura e dunque al minimo. Una massa immensa, festante e incredula di fronte a un uomo solo, che dissero in seguito non si ripeté nemmeno per i funerali di Wellington[3]. Una massa anomala, disomogenea, c'aveva mantenuto l'ordine nel giubilo sanza l'aiuto di polizia e soldati, felice forse per la prima volta nella storia, di condurre un proprio Eroe alla casa d'un duca e di vederlo preso per mano dall'aristocrazia.




1.   Dante Alighieri, Inferno, canto V, ultimo verso

2.   Thomas Carlyle (Ecclefechan, 4 dicembre 1795 – Londra, 5 febbraio 1881) è stato uno storico, saggista e filosofo scozzese, uno dei più famosi critici del primo periodo vittoriano. Va detto inoltre che la sfera di intellettuali e artisti che ammiravano Garibaldi (arrivando persino ad auto-tassarsi per finanziare le sue imprese) era all'epoca molto numerosa e vantava personaggi del calibro ad esempio di Victor Hugo che arrivò addirittura a dimettersi dal parlamento francese, facendo un meraviglioso discorso in difesa dell'Eroe nizzardo, dopo che venne ripudiato dai clericali d'oltralpe nonostante fu l'unico in tutta Europa ad accorrere per combattere contro i prussiani (e l'unico anche a vincere una battaglia respingendoli a Digione e strappando loro una bandiera, la sola persa dall'Impero di Prussia) per difendere la nascente Repubblica francese. Altro artista che fu non solo ammiratore ma grande amico di Garibaldi, è stato Alexander Dumas padre, (autore dei famosi romanzi I tre moschettieri e Il conte di Montecristo) che saputo della Spedizione dei mille, raggiunse l'Eroe per mare fornendogli, con i soldi messi da parte per il suo viaggio, armi, munizioni e camicie rosse. Fu poi testimone oculare della Battaglia di Calatafimi, che descrisse ne I garibaldini, pubblicato nel 1861 e sempre al fianco di Garibaldi il giorno dell'ingresso del nizzardo a Napoli, dove fu poi nominato da questi "Direttore degli scavi e dei musei", carica che mantenne per tre anni. Tornato a Parigi, Garibaldi lo incaricò di fondare il giornale garibaldino L'indipendente, che diresse. Scrisse dell'Eroe: “Una leggenda vivente, il condottiero della libertà, il soldato dell'indipendenza”.

3.   Sir Arthur Wellesley, primo duca di Wellington ( Dublino, 1º maggio 1769 – Walmer, 14 settembre 1852) è stato un generale e politico britannico di origine irlandese. Comandò le forze anglo-portoghesi durante la guerra d'indipendenza spagnola, espellendo, dopo una serie estenuante di campagne dal 1809 al 1813, l'esercito francese dalla Spagna e raggiungendo la Francia meridionale. Vittorioso e salutato come un eroe in patria, prese parte, come rappresentante del suo paese al Congresso di Vienna. Dopo il ritorno di Napoleone Bonaparte dall'isola d'Elba, assunse il comando delle forze anglo-alleate schierate in Belgio e vinse, insieme all'esercito prussiano del feldmaresciallo Gebhard Leberecht von Blücher, la battaglia di Waterloo che determinò la sconfitta definitiva dell'imperatore francese. In seguito fu anche per due volte primo ministro del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda.