INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE
IN LINGUA ORIGINALE
di
Michele Filipponi
- Atto sesto -
La punizione della donna
Veniamo ora invece al passo più controverso, quello che riguarda la donna. Per millenni questi versi sono stati utilizzati dall'uomo per giustificarne la sottomissione e l'inferiorità e in certi casi lo sono purtroppo ancora oggi. Eppure l'ebraico antico, di per sé, ha un grande rispetto della donna, tanto da riservarle addirittura una seconda persona singolare e una plurale, distinta da quella dell'uomo. Nell'ebraico infatti il “tu” e il “voi” si differenziano anche per genere, regalando quindi alle donne un “tu” e un “voi” esclusivo, tutto per loro. Ma la Bibbia infondo è stata scritta dagli uomini, e pure tradotta dagli uomini. Dunque è inevitabile che la donna ne esca svantaggiata. Però, se chi l'ha scritta è giustificato dal periodo storico e culturale in cui l'ha fatto (ogni libro va letto e ricollegato al contesto in cui questo è stato scritto, la Bibbia ha all'incirca 3500 anni, perciò i rapporti uomo-donna che vi sono descritti sono certamente coerenti al relativo periodo storico), chi l'ha tradotta certamente no. I traduttori hanno aggiunto pesi anziché portare a nudo la superficie. Vediamo allora di fare chiarezza. Le parole incriminate in questo celeberrimo passo sono due: una è “'etzev - עֶצֶב" tradotta “dolore” e l'altra è “yimshal - יִמְשָׁל” tradotta “dominerà”. Partiamo dalla prima. Dice la Bibbia: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze. Con dolore partorirai figli”. Prima di tutto l'ebraico ha “harbàh 'arbèh” cioè “Moltiplicare moltiplicherò”, un'impostazione verbale che può essere tradotta in due modi: o con un verbo preceduto da una congiunzione temporale che dia continuità all'azione ("Mentre moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze") o più frequentemente con un rafforzativo ("Certamente moltiplicherò"), senza dubbio più adatto al nostro contesto. Qualcuno qui traduce “Moltiplicherò grandemente”, è una manipolazione del traduttore, aggiunge un peso che non c'è. Dio non può fare a meno di moltiplicare, vedremo poi perché. In più non sono i dolori e le gravidanze a moltiplicarsi, ma IL dolore e IL parto, non c'è plurale. Ma veniamo alla prima parola incriminata, quella che pesa davvero come un macigno, il termine “'etzev” tradotto “dolore”.
La parola “'etzev” ricorre nell'antico testamento sette volte in tutto e nell'ebraico ha davvero un'infinità di significati, alcuni anche molto diversi fra loro. Si va da “tristezza” a “nervo ottico” tanto per darvi un'idea. Quello che dovete sapere è che le traduzioni che sono state fatte in italiano nel corso dei secoli sono molteplici, per cui per ognuna delle sette volte in cui questa parola ricorre, troverete almeno 5 o 6 traduzioni diverse. Un vero inferno. Va detto però che nella maggior parte dei casi, direi almeno 5 volte su 7, si può dedurre dal contesto che questa parola significhi “fatica, sforzo”. Nel Salmo 127:2 ad esempio, è scritto: “Invano è per voi levarsi presto e coricarsi tardi, mangiatori di pane degli sforzi/'atzavim, mentre il Signore darà al suo prescelto, che se la dorme”, questo passo in alcune Bibbie è tradotto “pane di doglie”, in altre “pane tribolato”, in altre ancora “pane di duro lavoro” ma è evidente che qui il dolore non c'entri nulla. Chi ha una lunga giornata di lavoro, alzandosi presto e coricandosi tardi, mangia un pane di fatica, non di dolore. Stessa cosa per almeno altre tre ricorrenze nel libro dei Proverbi. Mentre invece in Proverbi 15:1 e soprattutto in Geremia 22:28 il termine “'etzev” diventa un mistero. Nel primo caso il verso dice: “La risposta dolce calma il furore, ma la parola dura/'etzev eccita l'ira”, notate che in altre traduzioni la parola "dura” diventa “pungente” o addirittura “molesta”. In Geremia invece “'etzev” è incomprensibilmente “vaso” o in certi casi perfino “idolo”. Non chiedetemi perché. Sia “vaso” che “idolo” in ebraico hanno altre parole. Ma questo è utile per farvi capire quanto la lingua ebraica sia stata deformata e quanto venga deformata tutt'ora dai traduttori, specialmente nel nostro idioma, ricco e preciso in quanto a termini. Il contrario dell'ebraico.
Per quanto concerne il nostro passo dunque, sebbene “'etzev” nella nostra varietà linguistica significhi: “tristezza, fatica, pena, lavoro, sforzo, accorare” perfino “sudore” e in ebraico moderno addirittura “nervo”, credo che la traduzione corretta per Genesi 3:14 sia, come dice giustamente Erri De Luca: “sforzo, fatica”. Non che nel parto non ci sia dolore, ma non potendo esserci tristezza mettendo al mondo un figlio, il termine deve per forza essere svuotato dell'accezione sentimentale negativa, il dolore della donna è meramente fisico e perciò si tratta di “sforzo”, di “fatica” e così va tradotto. Traducendo “dolore” s'aggiunge un peso che non c'è. Anche in questo caso più che essere Dio a punire, è la conseguenza stessa della scelta di Eva a farlo. La donna infatti, còlto il frutto, si è distaccata dalle bestie, dall'agilità istintiva che hanno gli animali selvatici nel partorire. Essa nella gravidanza ha un supplemento di sforzo, non di dolore, rispetto alle altre creature viventi: è questo il prezzo che paga per la conoscenza del bene e del male. Distaccandosi dall'animalesco istinto che facilita il parto, Eva è adesso schiava del proprio cervello raziocinante: è quello ad aumentargli lo sforzo, a farglielo percepire di più. Gli animali infatti non sanno di partorire, partoriscono e basta. Così come non sanno d'essere nudi. Ora Eva mangiato il frutto, sa entrambe le cose e Dio, per quello che la scelta di lei comporta, non può fare a meno di moltiplicare. “Certamente” dovrà farlo, è una moltiplicazione automatica, una conseguenza logica della presa di coscienza, del passaggio da uno stato animalesco ad uno umano. Alla parola “'etzev” perciò va tolto il peso della condanna, non a caso può anche essere letta come una parola composta: “'etz bet”, cioè “albero della dualità”, quello del bene e del male, poiché è da lì che nasce lo sforzo, lo scotto che la donna paga per averci aperto gli occhi. “'Etzev” ha valore numerico 162, come: “נדחק - spinto”, “קול יהוה - voce del Signore”, “הנזק – danno” e “היוצאים – partenza”. Certo, quella di Eva è stata una scelta sicuramente a danno della felicità, ma una scelta che ci ha resi quello che siamo, esseri umani. La voce del Signore è infusa nello sforzo della donna poiché è essa stessa generatrice, anche la voce di Dio ha compiuto uno sforzo nella creazione, non a caso il settimo giorno si riposa, è esausta. Lo sforzo è una benedizione, è il punto di partenza di ogni essere umano che nasce letteralmente dalla spinta. Ogni creatura è figlia di uno sforzo, di una spinta in fuori. Ogni volta che una donna partorisce ricorda a sé stessa e al mondo la scelta di Eva e a noi uomini, manipolatori del testo sacro, il prezzo fisico che ha dovuto pagare per averci donato la conoscenza. Il dono più grande.
Prosegue la Bibbia: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto ed egli ti dominerà”. Eccoci alla seconda parola sovraccarica di pesi: “yimshal - יִמְשָׁל” tradotta “dominerà”. Anzitutto l'originale non parla di “istinto” ma di “desiderio”, questo verso nel corso dei secoli è stato portato come esempio per dimostrare l'inferiorità sessuale della donna. È probabilmente da qui che deriva la definizione di “sesso debole”. Ma c'è differenza fra desiderio e istinto! Da questa traduzione la donna ne esce sottomessa, “l'istinto” è animale (caratteristica che Eva ha perso) e si proietta tutto sul marito dando l'idea di una debolezza per la carne, quasi fosse una ninfomane monogama. Il “desiderio” invece, esatta traduzione dell'originale, è un'espressione totalizzante, racchiude cioè ogni forma di interesse della donna per l'uomo. È come se Dio le dicesse: “A lui dovrà andare il tuo intessere, i tuoi desideri. A lui ti dedicherai anima e corpo” perché egli non è vero che ti dominerà. La parola “yimshal” ricorre 81 volte nella Bibbia, 8 di queste nello stesso libro della Genesi e almeno 7 su 8 ha significato di “governare, reggere, amministrare, presiedere, regolare” in un contesto, nei vari passi, svuotato dell'accezione negativa di dominio, che in italiano sa tanto di tirannia spietata. Un esempio su tutti è Genesi 24:2, che dice: “E Abramo disse al servo più anziano di casa sua, che aveva il governo/hamoscel su tutti i suoi beni...”. Il servo di Abramo amministra, governa, non domina. Un servo non può dominare, dunque il termine non può che avere una valenza positiva. Il servo fondamentalmente, “si prende cura” della sua roba. È questo che l'uomo fa alla donna. Non la domina, la governa, se ne occupa. La signoria dell'uomo è il contrappasso che Dio applica alla donna per aver trasgredito all'unico comandamento, è il freno che Dio pone al lato ribelle di Eva. Il verso “egli ti governerà” non è riservato a una sola persona ma ha due destinatari, è un comando per entrambi. Insomma, quello che viene considerato come il passo più misogino della Bibbia, altro non è in realtà che un'inevitabile constatazione di Dio, conseguente al morso del frutto. Egli dice alle sue creature: “Avete preso una decisione e io vi avevo avvisato. Ora che siete coscienti potete discernere il bene e il male, esattamente come me. Non c'è più posto per voi nel mio giardino. D'ora in avanti dovrete cavarvela da soli e non sarà facile come lo era qui, quando non sapevate d'esseri nudi, d'avere bisogni ed ero io ad occuparmi di tutto. Là fuori sarà dura. Perciò tu donna, che hai avuto l'ardire di trasgredire al mio comando per il potere (fino ad allora esclusivamente divino) d'una conoscenza, dovrai per questo sottostare al governo di tuo marito. Egli si prenderà cura di te. E tu di lui, poiché il tuo desiderio gli sarà rivolto. Io certamente moltiplicherò il tuo sforzo e con sforzo partorirai figli. È inevitabile. Hai scelto di diventare un essere umano, non sei più una bestia ormai. Perciò il supplemento di fatica è un'esclusiva tua. Sei stata tu ha scegliertelo”. Questo per me, dice la Bibbia.