[Primo capitolo
del lungo saggio che sto portando avanti da mesi, intitolato "Discorso sopra l'Italia, patria mai nata". Volutamente scritto in
un italiano arcaico a richiamare lo stile classico dei nostri poeti,
l'opera sarà pubblicata in esclusiva via via su questo blog un capitolo alla volta,
cominciando dal primo dedicato alla lingua.]
DISCORSO SOPRA L'ITALIA, PATRIA MAI NATA
di
Michele Filipponi
"Italia, il suon del nome tuo sulla punta della bocca
d'una prima sillaba detta a denti stretti
che par esserci eppure non si tocca.
d'una prima sillaba detta a denti stretti
che par esserci eppure non si tocca.
Com'ella t'insinui e come lama metti
a bagno 'l corpo tuo sottile
nel mar che fatalmente affetti,
a bagno 'l corpo tuo sottile
nel mar che fatalmente affetti,
per terminar gloriosa sul pontile
aperta al mondo e crocifissa
l'ultima vocale tua, ascende come fa Cristo a' aprile".
aperta al mondo e crocifissa
l'ultima vocale tua, ascende come fa Cristo a' aprile".
Italia mia, la riconosci?
La tua vocina che s'alzò in piedi fra le terzine dantesche e vacillò di canto in canto, fanciulla eppure mai così grande.
E so che non son degno, ma avrei voluto esserci.
Ed esser lì quando in terra vulcanica di Sicilia mandasti 'l primo vagito alla corte del compaesano mio Federico II[1] che ti imbastì la culla.
No, neanche a lui son degno. E nemmanco a Cielo D'Alcamo[2] o a lo “Notaro” da Lentini che meravigliosamente[3] ricamò lo primo sonetto della storia.
Ma chissà chi fu il primo a chiamarti Italia e per qual motivo, se per via d'un antico re mitologico il cui nome è oggi appiccicato a un treno rosso o chissà che altro.
E chissà dove mai andrà a finire lo suono di quel nome, in quale profondità della carne e delle viscere. Pronunziarlo è come riemergere da un'apnea... Italia... respirare la prima aria e sentire 'l primo giro che riempie i polmoni. Chissà poi da dove arriva quel suono.
La lingua, non abbiamo che la lingua.
La perla più preziosa, che potrebbero spogliarci di tutto, lasciarci ignudi, soli, toglierci gli organi, torturarci, financo ucciderci ma sempre saremmo ancora padroni della musica che c'è nel verso che fan le parole nostre.
Oggi Italia mia, colonizzati viscidamente dall'interno da conquistadores d'oltreoceano e da' loro biascicosi vocaboli, unti e scivolosi che per nostra stessa colpa adoperiamo. Non han punta idea i figli tuoi, di cosa stanno perdendo. Che una parola che non vien più adoprata è parola morta che mai più torna. E parola morta chiama a sé altre parole cosicché codesta catena di defunti è il funerale della nostra identità e noi ne siam le vittime si, ma soprattutto i complici.
La lingua tua, contaminata da barbarico gergo anglo-tedesco, trattata da provincialotta con le scarpe rotte, troppo “easy” per esser “strong”. A volte mi chiedo come fai, Italia mia, a non piangere di fronte a tanti figli che pur disponendo delle tue parole, non le scelgono. E rigettandole uccidono te, se stessi e la propria cultura. Mi chiedo come fai a startene lì a guardarci morire.
Dentro americanismi gutturali, sonorità germaniche che partono dall'esofago e si nascondono dietro alle tonsille, con qualche guizzo di lingua fra i denti come fan le serpi. Guardali, come tirano i muscoli del collo. La gola, parlano con la gola: la differenza sostanziale che ci divide. Forse è per questo che fanno così tante guerre... la frustrazione di ciò che rimane "dietro", che non riesce a venir fuori se non in maniera scomposta (al contrario de' loro vocaboli, composti oltremisura) e dal quale ne esce un suono sempre danneggiato, molle, insipido. La differenza che vi è tra un popolo che parla con la gola e uno che parla con la bocca.
La bocca Italia mia, la lingua tua risuona tutta nella bocca, proprio come in un bacio alla francese; che poi è italiano pure quello, chiedete a Enrico II che lo provò la prima volta da Caterina de' Medici, com'è la lingua nostra...[4]
E pensare che vi è chi afferma che non sei musicale come altre e che per scriver canzoni non sei adatta. Certi stolti, mi sia permesso il canzonarli come più gli si confà: hanno l'orecchio al “cool”, inteso come italianissimo deretano. Poveri loro!
La lingua tua è netta, Italia mia. Netta come l'orizzonte che divide il mare dal cielo. Prende le labbra, i denti, le gengive, le due arcate, il palato. E non si spaura nell'uscire e non rimane masticata, ma cade tonante su ogni sillaba che par saetta c'entrare il campanile e che rimbomba. Precisa, lascia a' suoi dialetti e alle sue lingue regionali l'arte del guizzo e del trascinamento, l'invettiva dei vocaboli che si creano e si distruggono in un attimo e che svolazzano come fantasticherie della mente. E impara da loro e prende da loro e rende chiaro ciò che loro coltivano nella terra e pescano dall'acqua, poiché tutt'élle fan di questa penisola un grande mercato di suoni all'aperto che strisciano nelle strade e nei campi e luccicano nelle mani aggrinzite dei contadini. L'italiano, figlio del volgar latino, nasce proprio per necessità d'esser compresi.
È chiaro e lineare nell'azione, trasuda di potenza. Dimmi, Italia mia, chi altri al mondo può affermare d'aver lo suo linguaggio intessuto da Dante, dal Petrarca, dal Boccaccio e dalla scuola de' poeti siciliani del sonetto? L'italiano è una lingua romanza, letteraria, scritta ancor prima che detta. Non si può immaginar al mondo di poter far poesia con altro idioma imperocché è stata la poesia stessa a sceglierselo per sé, nell'Inferno delle bolge come nella scalata del Purgatorio infino a riveder le stelle e ancora oltre, nell'Infinito dolce naufragar sull'ermo colle. Niuna al mondo e ribatto il tasto, Niuna, può dire d'aver le proprie radici affondate e forgiate nella più grande opera letteraria di tutti i tempi: la Comedìa. Votata all'arte, la lingua tua sta alla poesia come Dio all'eterno. Inscindibile, sgorgò dall'inchiostro delle penne quando le penne eran piume d'oca e l'Italia, a differenza del suo idioma, ancor nemmeno sulla carta. Lì sei rimasta oggi, Italia mia, patria mai nata: sulla carta.
La tua vocina che s'alzò in piedi fra le terzine dantesche e vacillò di canto in canto, fanciulla eppure mai così grande.
E so che non son degno, ma avrei voluto esserci.
Ed esser lì quando in terra vulcanica di Sicilia mandasti 'l primo vagito alla corte del compaesano mio Federico II[1] che ti imbastì la culla.
No, neanche a lui son degno. E nemmanco a Cielo D'Alcamo[2] o a lo “Notaro” da Lentini che meravigliosamente[3] ricamò lo primo sonetto della storia.
Ma chissà chi fu il primo a chiamarti Italia e per qual motivo, se per via d'un antico re mitologico il cui nome è oggi appiccicato a un treno rosso o chissà che altro.
E chissà dove mai andrà a finire lo suono di quel nome, in quale profondità della carne e delle viscere. Pronunziarlo è come riemergere da un'apnea... Italia... respirare la prima aria e sentire 'l primo giro che riempie i polmoni. Chissà poi da dove arriva quel suono.
La lingua, non abbiamo che la lingua.
La perla più preziosa, che potrebbero spogliarci di tutto, lasciarci ignudi, soli, toglierci gli organi, torturarci, financo ucciderci ma sempre saremmo ancora padroni della musica che c'è nel verso che fan le parole nostre.
Oggi Italia mia, colonizzati viscidamente dall'interno da conquistadores d'oltreoceano e da' loro biascicosi vocaboli, unti e scivolosi che per nostra stessa colpa adoperiamo. Non han punta idea i figli tuoi, di cosa stanno perdendo. Che una parola che non vien più adoprata è parola morta che mai più torna. E parola morta chiama a sé altre parole cosicché codesta catena di defunti è il funerale della nostra identità e noi ne siam le vittime si, ma soprattutto i complici.
La lingua tua, contaminata da barbarico gergo anglo-tedesco, trattata da provincialotta con le scarpe rotte, troppo “easy” per esser “strong”. A volte mi chiedo come fai, Italia mia, a non piangere di fronte a tanti figli che pur disponendo delle tue parole, non le scelgono. E rigettandole uccidono te, se stessi e la propria cultura. Mi chiedo come fai a startene lì a guardarci morire.
Dentro americanismi gutturali, sonorità germaniche che partono dall'esofago e si nascondono dietro alle tonsille, con qualche guizzo di lingua fra i denti come fan le serpi. Guardali, come tirano i muscoli del collo. La gola, parlano con la gola: la differenza sostanziale che ci divide. Forse è per questo che fanno così tante guerre... la frustrazione di ciò che rimane "dietro", che non riesce a venir fuori se non in maniera scomposta (al contrario de' loro vocaboli, composti oltremisura) e dal quale ne esce un suono sempre danneggiato, molle, insipido. La differenza che vi è tra un popolo che parla con la gola e uno che parla con la bocca.
La bocca Italia mia, la lingua tua risuona tutta nella bocca, proprio come in un bacio alla francese; che poi è italiano pure quello, chiedete a Enrico II che lo provò la prima volta da Caterina de' Medici, com'è la lingua nostra...[4]
E pensare che vi è chi afferma che non sei musicale come altre e che per scriver canzoni non sei adatta. Certi stolti, mi sia permesso il canzonarli come più gli si confà: hanno l'orecchio al “cool”, inteso come italianissimo deretano. Poveri loro!
La lingua tua è netta, Italia mia. Netta come l'orizzonte che divide il mare dal cielo. Prende le labbra, i denti, le gengive, le due arcate, il palato. E non si spaura nell'uscire e non rimane masticata, ma cade tonante su ogni sillaba che par saetta c'entrare il campanile e che rimbomba. Precisa, lascia a' suoi dialetti e alle sue lingue regionali l'arte del guizzo e del trascinamento, l'invettiva dei vocaboli che si creano e si distruggono in un attimo e che svolazzano come fantasticherie della mente. E impara da loro e prende da loro e rende chiaro ciò che loro coltivano nella terra e pescano dall'acqua, poiché tutt'élle fan di questa penisola un grande mercato di suoni all'aperto che strisciano nelle strade e nei campi e luccicano nelle mani aggrinzite dei contadini. L'italiano, figlio del volgar latino, nasce proprio per necessità d'esser compresi.
È chiaro e lineare nell'azione, trasuda di potenza. Dimmi, Italia mia, chi altri al mondo può affermare d'aver lo suo linguaggio intessuto da Dante, dal Petrarca, dal Boccaccio e dalla scuola de' poeti siciliani del sonetto? L'italiano è una lingua romanza, letteraria, scritta ancor prima che detta. Non si può immaginar al mondo di poter far poesia con altro idioma imperocché è stata la poesia stessa a sceglierselo per sé, nell'Inferno delle bolge come nella scalata del Purgatorio infino a riveder le stelle e ancora oltre, nell'Infinito dolce naufragar sull'ermo colle. Niuna al mondo e ribatto il tasto, Niuna, può dire d'aver le proprie radici affondate e forgiate nella più grande opera letteraria di tutti i tempi: la Comedìa. Votata all'arte, la lingua tua sta alla poesia come Dio all'eterno. Inscindibile, sgorgò dall'inchiostro delle penne quando le penne eran piume d'oca e l'Italia, a differenza del suo idioma, ancor nemmeno sulla carta. Lì sei rimasta oggi, Italia mia, patria mai nata: sulla carta.
1. Federico II
Hohenstaufen (Jesi, 26 dicembre 1194 – Fiorentino di Puglia,
13 dicembre 1250) fu Duca di Svevia, re di Sicilia (dal 1198 al
1250), di Germania (dal 1212 al 1220) e Imperatore del Sacro Romano
Impero. Meglio conosciuto con l'appellativo di Stupor Mundi, fu
uomo straordinariamente colto (parlava ben sei lingue: latino,
siciliano, tedesco, francese, greco e arabo)
nonché apprezzabile
letterato e grandissimo mecenate, il suo regno fu principalmente
caratterizzato da una forte attività legislativa e di innovazione
artistica e culturale, volta a unificare le terre e i popoli, ma
fortemente contrastata dalla Chiesa, di cui il sovrano mise in
discussione il potere temporale. Giocò
inoltre un ruolo estremamente
importante
nel promuovere le lettere attraverso la poesia della Scuola siciliana
da lui fondata. La sua corte reale a Palermo, dal 1220 circa sino
alla sua morte, vide uno dei primi utilizzi letterari di una lingua
romanza (dopo l'esperienza provenzale), il siciliano. Tale scuola
poetica ebbe una notevole influenza sulla letteratura e su quella che
sarebbe diventata in seguito la moderna lingua italiana, tanto
da essere salutata con
entusiasmo da Dante e dai suoi contemporanei, anticipando
di fatto di almeno un secolo
l'uso dell'idioma toscano come lingua d'élite
letteraria d'Italia. Va a Federico II infine,
il merito di aver fondato a
Napoli la prima università statale e laica del mondo tutt'ora
esistente, il 5 giugno del 1224.
2.
Poeta e drammaturgo italiano del XIII secolo, fra i più significativi rappresentanti della poesia giullaresca della scuola siciliana, viene ricordato soprattutto per il famoso componimento poetico “Rosa fresca aulentissima”.
3. Poesia contenuta nelle Rime di Giacomo da Lentini (Lentini, 1210 circa - 1260 circa), massimo esponente della Scuola siciliana nonché notaio, considerato universalmente come l'ideatore del sonetto.
4. Tra le tante leggende che circolano intorno alla figura di Caterina de' Medici pare vi sia anche quella di aver introdotto in Francia il cosiddetto “bacio alla fiorentina”. Quel che è certo è che in principio il bacio si chiamasse davvero così e che divenne “alla francese” soltanto in seguito alla seconda guerra mondiale, quando le truppe inglesi tornando a casa dalla Francia riutilizzarono l'espressione attribuendola alle donne francesi. Inoltre tra gli altri rinnovamenti introdotti a Corte da Caterina de' Medici dopo essere andata sposa in Francia, vi fu anche quello della cucina. Fu proprio lei infatti a fondare la famosa “cucina francese” facendo venire a Parigi cuochi dalla Toscana, che divisero per la prima volta i cibi salati da quelli dolci e portarono sulle tavole d'oltralpe la forchetta, allora sconosciuta. Fu sempre lei infine, a diffondere l'uso delle mutande presso le dame di palazzo, essendo questo un indumento necessario per andare a cavallo.