DISCORSO SOPRA L'ITALIA, PATRIA MAI NATA
di
Michele Filipponi
- Capitolo VII -
Così lo Generale compì la su' eroica e folle impresa in nome de lo diavolo Vittorio Emanuele, l'unico che pur non appoggiandolo apertamente non si mostrò di certo contrario alla spedizione dei mille a patto che l'Eroe si tenesse ben alla larga da Roma, all'epoca sotto lo controllo francese di Napoleone III con lo quale i sabaudi stabilirono in segreto un patto di non belligeranza.[1]
Questo fu, forse, lo più grande errore del guerriero nostro, che pur di non venir meno alla parola data e di far di Te nazione unita, consegnò un intero Regno, quello delle due Sicilie, dopo averlo liberato dal giogo de' Borboni fra mille peripezie e battaglie epiche e ali di folla che lo scortavano di paese in paese venerandolo come un santo, nelle mani sporche d'un altro monarca. E fu a Teano ch'egli stesso, un secondo dopo aver stretto la mano a lo Re e ricevuto da questi l'ordine di farsi da quel momento in poi da parte, capì d'aver immolato alla santa causa dell'unità un bene assai più grande, non barattabile e per lo quale lui e li suoi uomini versarono sangue: la libertà.
Di lì in avanti colui che più di tutti contribuì materialmente a fare l'Italia divenne per l'Italia (o meglio per lo suo governo) 'l nemico pubblico numero uno. “El Diablo”, così nomato in sud America, furente, ingestibile, ostinato e inarrestabile, lo biondo guerrigliero capace d'ogni impresa, confinato a Caprera ove si caricò d'ira e di furore e da dove ripartì per cento volte armato di fucile contro li nemici dell'umanità e de' la su' patria, con spirto anarchico e ribelle, con indomita perseveranza, puntò lo sguardo verso Roma e andò pugnando colà ove anni prima stremato dal dolore se ne fuggì portando 'n braccio per chilometri l'Anita sua morente, mentre venìa rincorso da' nemici. Di lì in poi, con forza cieca, sempre tentò ma invano di prender Roma e di liberarla da lo despota papale, contro il voler de lo governo italico fantoccio de' francesi, al comando de' suoi fedeli volontari garibaldini. Eserciti leggendari di giovanissimi e indomiti sognatori al seguito e agli ordini soltanto de lo Duce loro, furon epici come i mirmidoni d'Achille o i 300 di Leonida, quando accerchiati e catturati e messi agli arresti e poi torturati e derisi e fucilati e sciolti nella calce a Fenestrelle assieme a' borbonici e a' briganti, non cedettero le armi all'oppressore, né tradirono l'ardente principio che li animava. Eran medici, ingegneri, contadini, aristocratici, insegnanti, vecchi e giovani e sempre inferiori di numero rispetto a lo nemico ma sostenuti da un ideale potente come l'amore che move il sole e l'altre stelle[2]; essi guidati alla carica folle e disperata d'un genio militare de la guerriglia, d'un pazzo sanza paura, partivano all'assalto di eserciti sterminati come tante meteore infuocate, mal equipaggiati e all'arma bianca al grido immortale di: “Roma o morte!”.
Perciò due anni dopo l'impresa de' mille, al comando di 4000 garibaldini in marcia verso la città etterna, lo Stato Italiano per ordine de lo Re Vittorio Emanuele mandò i bersaglieri a sbarrare la strada a lo Duce, ad assassinare colui che solo qualche tempo prima gli aveva donato un Regno intero.
E quale migliore occasione per far fuori lo nostro Eroe se non con un'imboscata all'Aspromonte? Quale occasione più ghiotta, come scrisse Achille Bizzoni (lo patriota e padrino de lo grande Felice Cavallotti[3]) “per sbarazzarsi finalmente dell'importuno condottiero che umiliava la corona con la sua gloria e la sua popolarità mondiale, assiso su un trono ben più alto di quello de lo sovrano, ridotto ad essere il secondo nel suo regno. L'importuno condottiero eternamente ribelle anche allorché regalava terre conquistate senza aiuto alcuno; l'importuno... che a tante notti insonni costringeva la diplomazia”.[4]
1.
Gli Accordi
di Plombières furono accordi verbali segreti, stipulati
fra l'Imperatore Napoleone III di Francia e il Primo ministro del
Piemonte Cavour, nella cittadina termale di Plombières in Francia,
il 21 luglio 1858. Gli accordi stabilirono la guerra di Francia e
Piemonte all’Austria e il futuro assetto della penisola italiana,
che sarebbe stata divisa in sfere d’influenza francese e
piemontese, con i primi a controllare i due terzi della penisola e
dunque anche Roma e i secondi ad acquisire il controllo di tutto il
nord d'Italia.
2.
Dante Alighieri, Paradiso, canto XXXIII,
ultimo verso
3.
Felice
Cavallotti (Milano, 6 ottobre 1842 – Roma, 6 marzo 1898) è stato
un politico, poeta, drammaturgo e patriota italiano, fondatore
dell'Estrema sinistra storica, movimento attivo tra il 1877 e
l'avvento del Partito Radicale Italiano (1904). Fu soprannominato "il
bardo della democrazia". Volontario
garibaldino in gioventù, benché la sua fama sia oggi molto
inferiore a quella di Mazzini e Garibaldi presso il grande pubblico,
all'epoca era considerato il vero erede politico dei due eroi del
Risorgimento. Politico idealista e appassionato, combatté molte
battaglie per la giustizia sociale e una società autenticamente
libera, oltre che contro la corruzione e il colonialismo della classe
dirigente crispina. Cavallotti fu considerato il capo incontrastato
dell'estrema sinistra
nel parlamento dell'Italia liberale pre-giolittiana. Morì
tragicamente a 56 anni, dopo essere stato ferito gravemente in duello
dal giornalista conservatore Ferruccio Macola, gli
fece da padrino nel duello Achille Bizzoni.
4.
Achille Bizzoni (Pavia,
5 maggio 1841 – Milano, 21 settembre 1903) è stato uno scrittore e
giornalista italiano inviato
del quotidiano nazionale Il Secolo,
allora il più diffuso in Italia. Fu un forte oppositore della
politica del governo monarchico italiano.
La frase in questione è
tratta dal libro “Garibaldi nella
sua epopea”, opera
memorialistica garibaldina del
1905.