martedì 24 febbraio 2015

"Discorso sopra l'italia, patria mai nata" - Capitolo IV


 DISCORSO SOPRA L'ITALIA, PATRIA MAI NATA
di
Michele Filipponi


- Capitolo IV - 
 

E Tu? Tu non sei forse la più sola fra tutti noi? Abbandonata da' tuoi figli italianissimi di nascita ma forestieri nell'animo, guarda come t'hanno addobbata!
Guarda come vesti di metropoli straniera, con quei graffiti preistorici spruzzati da odierni Neanderthal, annerita e devastata e coperta di scorie, concimata d'inceneritori e bucata da trivelle e imbottita nei sotterranei di testate nucleari americane, bar americani, "ristoranti" americani e bevande e film e vestiti e mode e parole, parole, parole e morali e costumi americani. Guarda come grondi di catrame, come annaspi sotto a strade di cartapesta e soffochi di diserbanti nelle valli, guarda le tu' coste trafitte da raffinerie e depuratori e scarichi fognari, guarda i campi ammantati di cemento, la terra zeppa di fabbriche 'nsensate, 'l corpo tuo scrivacciato in longo e in largo da ròte de gomma et impoverito da' tuo' stessi figli. Guarda Italia mia, li tuoi pidocchiosi e riluttanti figli che t'han venduta a' soliti padroni esteri. Sempre la stessa storia che si ripete, come quando per tre secoli spartita da francesi e spagnoli e austriaci venivi apparecchiata come tavola imbandita da italiani impotenti e vigliacchi sempre assoggettati a un nòvo tiranno. Mentre la Chiesa intenta a perseguitar lo progresso e la conoscenza li ammansiva, terrificandoli con l'invenzione d'un Dio vendicativo, imprigionandoli nella paura, nell'ignoranza e sprofondandoli nella superstizione. Ella ha fatto degl'italiani tanti docili agnellini pronti a farse sgozzare da chicchessia e per qualsiasi sciocchezza. Eppure almeno allora scoppiavano rivolte. Popolari e cruente. E gli eroi e li martiri arsi nelle pubbliche piazze con le loro urla strazianti tra le fiamme, scòtevano le coscienze et eran d'esempio per molti secoli a venire. 

Ve ne sono stati di figli tuoi che non hanno chinato la testa e che per questo l'han perduta, per un'idea matta di libertà e per l'indipendenza della terra tua. Guarda Cola di Rienzo[1], che tentò di liberar Roma dal giogo de' papi e de' baroni e che fu portato alla follia et infine incenerito da l'istesso popolo che aveva a còre, lui che per bontà d'animo affinché quela massa analfabeta comprendesse la propria rovina, gliela mostrava con degli enormi affreschi 'n cima al Campidoglio. Eppure non bastò, povero pazzo.
E Masaniello
[2] Italia mia, vittima de la stessa sorte, pescivendolo e contrabbandiere divenuto generalissimo de lo popolo suo che fece insorgere contro la Spagna Asburgica, in quella tua terra che più d'ogne altra risplende de ricchezze e a cui hai regalato sanza badare a spese la bellezza de' profumi e de' paesaggi come a nessun'altra. Napoli... ricordi 'l vecchio detto che da 'l permesso al forestiero de morir felicemente solo dopo averla vista? Oggi dolce Italia, “vedi Napoli e poi muori”, ma di disperazione lo faresti. Ridotta in quello stato dallo Stato stesso che dalla conquista sabauda non smette di dilaniarla un solo giorno. E tutto attorno prosciugata industrialmente, mentre 'l Vesuvio simbolicamente tace, la terra arde di fuochi tossici e nuvole di camorra. A ben vedere lo vecchio pescivendolo se rivoltò per molto meno.
E Giordano Bruno
[3] che venia anch'esso da quella terra? L'eretico ch'aprì la strada alla rivoluzione scientifica 'n seguito attuata dal genio de colui che vide sotto l'etereo padiglion rotarsi più Mondi e il sole irradiarli immoto[4]; rifiutando di trincerarsi ottusamente dietro ai dogmi ignoranti de la Chiesa. Egli non tremò davanti alla sentenza dell'Inquisizione et oggi al centro de la piazza a Campo De' Fiori in cui esalò l'ultimo respiro, la statua sua rivolta verso 'l Vaticano ha la testa china e lo sguardo ammonitore. Ve ne sono stati di martiri eppur di sangue 'l suolo tuo non s'è mai saziato.
Così oggi altri barbari saccheggiano ma a norma di legge, tutelati da lo Stato Repubblicano e con il beneplacido de' tuo' figli peggiori, che niuna rivolta scatenano nella massa ma che anzi da questa vegnono eletti e rieletti e appoggiati e ignorati, fin tanto che le televisioni seguiteranno a sònare la Lira come nel mito di Nerone, per distrarli dall'incendio, per indottrinarli di note mentre Roma brucia.





1.  Cola di Rienzo al secolo Nicola di Lorenzo Gabrini (Roma, 1313 – Roma, 8 ottobre 1354) è stato un tribuno e studioso italiano, noto perché nel Tardo medioevo, tentò di restaurare il comune nella città di Roma straziata dai conflitti tra papi e baroni. Di umili natali, divenne, grazie a intenso studio, notaio ed esperto di antichità romane. Convinto assertore del primato politico e culturale di Roma, si impegnò a ripristinare l'antica grandezza. Inviato come ambasciatore presso Clemente VI ad Avignone (1343), lo invitò a rientrare a Roma per instaurarvi la repubblica. Ottenuto il favore del papa, l'appoggio di comuni e signori di Lazio, Umbria e Toscana, nonché di Francesco Petrarca, sollevò il popolo capitolino contro i nobili e si fece proclamare tribuno (maggio 1347) e liberatore della città (agosto 1347). Abbandonato dal popolo, impaurito dagli interventi armati della nobiltà e del papa a causa della sua intransigenza verso i diritti ecclesiastici e nobiliari, che colpì Clemente VI e lo stesso imperatore Carlo IV, fu arrestato, ma riuscì a fuggire. Rifugiatosi tra gli eremiti della Maiella, s'imbevve di profetismo escatologico e con nuovi programmi imperiali si recò a Praga (luglio 1350) per esporli a Carlo IV. Arrestato come sospetto d'eresia fu tradotto ad Avignone e quindi liberato per intercessione di Carlo IV e del Petrarca, suo ammiratore. Dal nuovo papa, Innocenzo VI, fu inviato allora in Italia, perché con la sua influenza appoggiasse il restauratore dello stato pontificio, Egidio Albornoz. Nominato senatore, entrò a Roma come trionfatore il 1º agosto 1354. Ma errori da lui commessi, per un'esaltazione che parve follia, di nuovo gli alienarono la popolarità e cadde ucciso in un tumulto. La sua breve esperienza fu uno dei tentativi per realizzare l'idea di un Impero che avesse nel popolo inteso come nazione il suo centro, e di una Chiesa realizzatrice di valori più spirituali.

2.  Tommaso Aniello d'Amalfi meglio conosciuto come Masaniello (Napoli, 29 giugno 1620 – Napoli, 16 luglio 1647) fu il principale protagonista della rivolta napoletana che vide, dal 7 al 16 luglio 1647, la popolazione civile della città insorgere contro la pressione fiscale imposta dal governo vicereale spagnolo. Dopo dieci giorni di rivolta che costrinsero gli spagnoli ad accettare le rivendicazioni popolari, a causa di un comportamento sempre più dispotico e stravagante, Masaniello fu accusato di pazzia, tradito da una parte degli stessi rivoltosi ed assassinato.
 
3.   Giordano Bruno, nato Filippo Bruno (Nola, 1548 – Roma, 17 febbraio 1600) è stato un filosofo, scrittore e frate domenicano italiano. Il suo pensiero, inquadrabile nel naturalismo rinascimentale, lo portò a concepire un Dio da un lato trascendente, in quanto supera ineffabilmente la natura, ma nello stesso tempo immanente, in quanto anima del mondo: in questo senso, Dio e Natura sono un'unica realtà da amare alla follia, in un'inscindibile unità panenteistica di pensiero e materia, in cui dall'infinità di Dio si evince l'infinità del cosmo e quindi la pluralità dei mondi. Per queste argomentazioni e per le sue convinzioni sulla Sacra Scrittura, sulla Trinità e sul Cristianesimo, Giordano Bruno fu incarcerato, giudicato eretico e quindi condannato al rogo dall'Inquisizione della Chiesa cattolica. Fu arso vivo a piazza Campo de' Fiori nell'anno 1600.

4.  Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, versi 160-162 in cui il poeta fa riferimento a Galileo Galilei.

venerdì 20 febbraio 2015

"Il dannato della settimana" - Matteo Salvini


Canto II - El zotico de Padania




Sempre con lo Poeta al fianco meo
venimmo a nòvo ospite a me noto
che tal al primo ha nome di Matteo

e come 'l primo a me sta sullo scroto.
Pagava li peccati in bolgia nona
noi che pagammo lui e nemmanco poco,

 squarciato da uno demone alla buona,
ch'avea la faccia negra d'africano
e fu uno clandestino dell'Angola.

 "O Duca, te presento 'sto padano"
diss'io ridendo per la buffa sorte
che mise 'l gonzo accanto al musulmano,

 qui fra i seminatori di discordie.
Difatti con Maometto or supplicava
e come lo profeta urlava forte.

El Sommo: "Pure questo comandava?"
"Di certo" dissi a lui spiegandol bene
"avrebbe assai voluto ma peccava

de non saper distinguer su' nazione
ch'un giorno era Padania e un giorno Italia
in base a 'ndo trovava le poltrone".

El Duca mio ch'aveva l'occhi in aria:
"Padania a me non torna come nome..."
"Difatti Duca, è terra immaginaria

un poco come Narnia e le su' gnome
e chi ci crede poi fa strane cose,
tipo ber la sozzura de lo fiume".

Lo Tosco mi guardò ma non rispose
poi fece faccia come chi non crede
e disse: "S'hai fumato, poche scuse!

 Passa lo bong a me che iddio non vede".
"Ma no" fec'io "lo giuro è tutto vero,
puoi chiedere al coglion s'hai poca fede".

"O zotico dal volto pien de pelo,
di' su all'orecchio meo chi rappresenti!"
disse lo Dotto pe' squarciassi 'l velo.

E quello a lui mandànci l'accidenti:
 "Va fòra di ball te e codesto negher!"
"Mi pare faccia pochi complimenti,

ci manca dichi a te che tiri seghe
e poi si po' anche farlo Lord inglese!".
"Maestro" dissi a lui "codeste beghe

è meglio ti risparmi e anche l'offese,
farò i' da Cicerone a vostra altezza
lumando l'ombre de 'sto milanese".

"Perché porta la 'nsegna su la vesta?"
me fece 'l Savio tutto 'ncuriosito
leggendo "Inferno" scritto co' la frusta

su quel che ne restava del vestito.
"Codesto è contrappasso" dissi a Dante,
poiché 'l barbuto in vita ha preferito

segnassi il loco indo' mettea le zampe,
così da ricordà in che borgo stava
et ora non gli servono altre stampe,

che da 'sto posto qua non ci si cava.
Però codesto è niente, mio Dottore
di quel che sgorbio immondo combinava".

Po' cominciai: "La gente de colore
partito suo l'ha sempre disprezzata,
ma prima ancora odiava 'l meridione

e andavan 'n giro con testa bardata
d'elmi vichinghi e verdi fazzoletti,
bèrciando forte: «Italia sia tagliata!»
 
Pel trono però servìan voti di tutti,
perciò cambiaron presto lo nemico
e l'immigrato dette bòni frutti

assieme all'odio contro l'invertito.
In più soltanto Cristo nelle classi
volevano che fosse consentito".

"Mi pare di veder pari sconquassi
di quelli che faceva Chiesa antica
al tempo in cui poggiavo piedi a' sassi".

"O Sommo, Chiesa nòva un cambia mica!
Più o meno l'è rimasta tale e quale,
sta sempre a mette bocca sulla fica  

 e 'l senso, in certi preti, è letterale.
Ma prima ch'arrivassimo alla fregna
voleo finir discorso sul maiale,

che poi partì per Napoli e Campagna
a chieder voti a quelli che puzzavan
e prese 'n faccia l'ovi e la scalogna.

Codesto suo partito si fregiava
di certi personaggi tipo 'l Trota
che comprò laurea in terra jugoslava

credendo gli colmasse testa vòta
o forse scambiò 'l nome del diploma
per quello di baldracca molto nota.

E dissero che i ladri eran di Roma
e infatti loro lì facean gli affari,
ma a tutti gli mancava un cromosoma

 così vennero presi coi danari
sui conti di Tanzania e handicappato
avea pure diamanti nei scaffali".

"E lui di questi qua sarebbe 'l capo?"
me disse 'l Duca mio, che tenne botta.
 "Codesto prende voto da ogni lato

sebben paia sciommion ch'esce di grotta!"
"Tu all'omo primitivo l'hai accostato 
ma questo è solo figlio di mignotta,

da' retta a me, scimmion è chi l'ha votato!"


mercoledì 18 febbraio 2015

"Discorso sopra l'Italia, patria mai nata" - Capitolo III


DISCORSO SOPRA L'ITALIA, PATRIA MAI NATA
di
Michele Filipponi


 - Capitolo III -


Mai nella storia dell'umanità è stato concesso ad un loco, una terra, una nazione, d'illuminar la società per una seconda volta. 
Non v'è movimento culturale paragonabile al Rinascimento, ogne circolo o scuola letteraria e artistica che son venute dopo nel mondo, non son che delle pallidissime imitazioni. Guarda Fiorenza Italia mia, quella del Magnifico, de la cupola del Brunelleschi, del Donatello, del Masaccio e dell'abbruciato fustigator Savonarola[1] e guardala oggi, ricoperta da' flash degli asiatici, annerita dalle migliaia d'auto de' cittadini suoi e governata da un venditor de pentolame co' lo giaccotto 'n pelle. Quello stesso suolo calpestato nel '500 da' più grandi geni di sempre: Leonardo, Michelagnolo, Raffaello[2] e da un'infinità d'altri artisti impareggiabili come 'l Bramante, Tiziano, il Perugino, Pinturicchio, Botticelli, il Vasari, per non parlar de la corte politica d'illuminati pensator ch'onorarono 'l Giglio come Machiavelli, Poliziano, Pico della Mirandola[3] e tant'altri ancora che non esisteranno mai più. O Italia mia, 'nginocchiate dinanzi a gloria tanta! Natura li fece e poi ruppe la stampa![4]
Come si può difatti render concepibile alle genti d'oggi la grandezza de Leonardo se li nostri canoni de grandezza si son ridotti a tal punto da considerar "grandi": attori, calciatori e stelle de lo teleschermo? Come spiegar l'inarrivabile armonia pittorica e architettonica di Raffaello, la perfezione prospettica e la grazia de lo Maestro che più d'ogne altro fece temer Madre Natura d'esser vinta? Com'è anche solo possibile mi chiedo io, comprendere la magnificenza e l'immane fatica de la michelangnolesca Cappella Sistina se non ridimensionandola ad uno livello più umanamente accessibile, laonde possa esser riassunta sanza fatica da' cervelli anestetizzati de lo terzo millennio, sotto quel freddo e apatico verso pronunziato co' lo sguardo spento: "Wow!". Ecco la misera dimensione in cui viviamo oggi, l'indifferenza cosmica con cui inceneriamo la bellezza... "Wow". 

E basta una parola, un'espressione et anzi spesso un solo termine addirittura avanza, in codesto nostro decadente secolo del "Wow" in cui tutto accade in 140 caratteri, per altro scritti malamente e abbreviati, poiché ogni cosa non se sa per qual motivo deve andar rapida, come se fossimo impegnati a fare altro. Tutto, in codesto vòto millennio se svolge dentro 'l movimento idiota d'un emoticon. E questo basta a distruggere la bellezza... una faccina che ride, uno cagnolin che balla. Ahi mass media vituperio delle genti, del bel paese là dove 'l sì suona, poi che i vicini a te punir son lenti.[5]
Lasciatelo dire Italia mia, che non vi son vicini in grado d'abbattere tale pestilenza, imperocché tutti quanti ammorbati, vivono codesti come milioni de macchine programmate a non vivere ma solo ed esclusivamente ad eseguire ordini o un ordine soltanto ch'è l'obbedienza. Una vita più robotica ch'umana, più meccanica che sanguigna, codesto ha fatto la televisione sùggendo anche l'ultimo lembo de desiderio che c'è negli esseri umani, quella scintilla de materia pensante che separa gli omini dalle amebe, quella voglia che mise Ulisse per l'alto mare aperto, o come rese al meglio Dante quando fece dire al Re d'Itaca: "Ma misi me"[6] ben diverso dal "io mi misi"; come se l'Ulisse prendesse prepotentemente se stesso dall'alto e con violenza cieca se scaraventasse nella su' barchetta in mezzo all'acque, pronta a scoprire 'l mondo. "Ma misi me" come a dir "Qua devi star, periddio!" rivolto a se stesso e a lo fuoco de saper che dentro glie ribolle. Che fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.[7] Lasciatelo dire Italia mia, sei nello sterco. E gli italiani tuoi, prosciugati e addomesticati et abituati sempre più all'insensato vacuo campare in cui si vive davvero solo apparendo, o sennò non v'è traccia alcuna d'aver vissuto e si può semmai tristamente al massimo "tirare avanti". L'esistenza se manifesta appropriata solo nel caso in cui s'appare ne la scatola vòta, altrimenti v'è l'oblìo o 'l penoso appagamento in un pollice alzato, quando 'l "piacere" diventa semplicemente "mi piace" e null'altro. Quando non s'ha più nemmeno l' fiato per godere ed ogni emozione e parola ed espressione è ridotta all'osso, quando l'approfondimento sparisce e tutto s'accorcia a tal punto da divenir “titolo” soltanto, poiché in una riga quelo tutto dovrà esplicarsi a causa de lo collasso che la soglia d'attenzion popolare ha avuto con l'invenzion de la rete internet.
Come ci si salva or dunque da tutto questo se non estraniandosi dal tempo, dal presente? Evadere da codesta accettata follia in cui l'intero globo, masse lobotomizzate d'idioti si auto scattano foto come tante scimmie impazzite o se gettano secchiate d'acqua gelida addosso, con la presunzione di ergersi a centro di gravità, con l'illusione che tutto ròti attorno a ognuno di loro, che siano ognuno il centro de lo mondo per chissà chi altri. Tanti piccoli insignificanti centri e non uno straccio di nessuno a visitarli. 

Compressi ingenuamente come sono, nello stanzino virtuale de la rete, stanno come tutti que' pianeti che dell'universo si son creduti il centro: soli, soli, soli.





1.   Lorenzo De' Medici detto Il Magnifico (Firenze, 1º gennaio 1449 – Firenze, 9 aprile 1492) figlio del grande Piero di Cosimo appartenente alla dinastia dei Medici, fu politico, scrittore, mecenate, umanista, poeta e grande intellettuale italiano, signore di Firenze dal 1469 alla morte, nonché una delle personalità più rilevanti del Medioevo. 
Filippo Brunelleschi (Firenze, 1377 – Firenze, 15 aprile 1446) è stato un architetto, ingegnere, scultore, orafo e scenografo italiano del Rinascimento. Tra i tanti edifici realizzati spicca su tutti la famosa cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, tutt'oggi la più grande cupola in muratura mai costruita. 
Donatello (Firenze, 1386 – Firenze, 13 dicembre 1466) è stato uno scultore, orafo e disegnatore italiano, padre del Rinascimento fiorentino assieme al Brunelleschi e al Masaccio. 
Masaccio (Castel San Giovanni in Altura, 21 dicembre 1401 – Roma, estate 1428) è stato un pittore italiano, considerato all'epoca come l'erede di Giotto, fu tra i principali iniziatori del Rinascimento. 
Girolamo Savonarola (Ferrara, 21 settembre 1452 – Firenze, 23 maggio 1498) è stato un religioso, politico e predicatore appartenente all'ordine dei frati domenicani, profetizzò sciagure per Firenze e per l'Italia propugnando un modello teocratico per la Repubblica fiorentina instauratasi dopo la cacciata dei Medici. Nel 1497 fu scomunicato da papa Alessandro VI e l'anno seguente impiccato e bruciato sul rogo come eretico.

2.   Leonardo Da Vinci (Vinci, 15 aprile 1452 – Amboise, 2 maggio 1519) , Michelangelo Buonarroti (Caprese Michelangelo, 6 marzo 1475 – Roma, 18 febbraio 1564) e Raffaello Sanzio (Urbino, 28 marzo o 6 aprile 1483 – Roma, 6 aprile 1520) furono in assoluto i tre più importanti esponenti del Rinascimento italiano, considerati unanimemente come i più grandi geni artistici di tutti i tempi.

3.   Donato "Donnino" di Angelo di Pascuccio detto il Bramante (Fermignano, 1444 – Roma, 11 aprile 1514) , Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1480/1485 – Venezia, 27 agosto 1576) , Pietro di Cristoforo Vannucci, noto come il Perugino (Città della Pieve, 1448 circa – Fontignano, 1523) , Bernardino di Betto Betti, più noto come Pinturicchio (Perugia, 1452 circa – Siena, 11 dicembre 1513) , Sandro Botticelli (Firenze, 1º marzo 1445 – Firenze, 17 maggio 1510) e Giorgio Vasari (Arezzo, 30 luglio 1511 – Firenze, 27 giugno 1574) furono tra i più grandi ed influenti pittori ed architetti del Rinascimento italiano. Mentre Niccolò Machiavelli (Firenze, 3 maggio 1469 – Firenze, 21 giugno 1527) , Agnolo Ambrogini detto Poliziano (Montepulciano, 14 luglio 1454 – Firenze, 29 settembre 1494) e Pico della Mirandola (Mirandola, 24 febbraio 1463 – Firenze, 17 novembre 1494) operarono tutti e tre sotto la corte dei Medici rivelandosi tra i più formidabili uomini politici, nonché scrittori, umanisti, filosofi e drammaturghi del periodo rinascimentale fiorentino.

4.   Ludovico Ariosto, Orlando furioso, Canto X, ottava 84

5.   Rivisitazione dei versi 79-81 del canto XXXIII (Inferno, Dante Alighieri)

6.   Dante Alighieri, Inferno, canto XXVI, verso 100

7.   Dante Alighieri, Inferno, canto XXVI, versi 119-120
 

giovedì 12 febbraio 2015

"Discorso sopra l'Italia, patria mai nata" - Capitolo II


DISCORSO SOPRA L'ITALIA, PATRIA MAI NATA
di
Michele Filipponi

 
- Capitolo II - 


Oh se 'l Sommo Poeta, padre tuo prima d'ogne altro, te vedesse... "Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire, or son venuto là dove molto pianto mi percuote"[1]. Perché come l'origine misteriosa de 'l nome tuo, eziando l'idea di te lo è.
Com'è possibile infatti esistere ancor prima d'esistere? Esser sulle bocche de' tuoi figli seppur spartita politicamente da questi? Mantenere un'unità nella division perenne? Tu, da' confini naturali geograficamente disegnati, al centro de quello che i romani chiamavan "mare nostrum", t'allunghi verso l'Africa e l'Oriente restando però aggrappata all'Alpi, che indossi come una corona 'n testa e che racchiudon la tua bellezza al di qua, affinché non se disperda. Tutto intorno hai vesti d'azzurro, è mare, acque calme e tu se' in mezzo a ombelico de tutto, come un braccio che si protende verso 'l mondo, verso l'altre terre, verso l'altre genti. Popoli stranieri che t'hanno contaminata ma mai assorbita: fenici e greci primi fra tutti.
Poi venne Roma, l'impero a illuminare 'l mondo. E lo nome tuo che fino ad allora venìa usato per riferirse soltanto all'odierna Calabria, passò grazie a' romani a indicare l'intiera penisola. Piantò lo seme 'l grand'eroe che pria da Troia, per destino, a i liti d'Italia e di Lavinio errando venne. Onde cotanto crebbe il nome de' Latini, il Regno d'Alba e le mura dell'imperio[2]. Roma. Roma Italia mia, letta al contrario Amor, non ha eguali. Roma fu lo lasciapassar per lo futuro, nacque con lei tutto ciò ch'è moderno, ogne affar che ce circonda, compresa te che forse mai fosti nazion gloriosa come allora a' tempi della Res publica. Ricordi l'oratoria magica de Cicerone e la guida d'Augusto? Oggi Roma non è che l'etterna riproposizione funerea del suo passato immenso, invasa com'è da inetti burocrati, ladri, guappi e guitti perdigiorno de la politica e de la finanza tutta. Come si puote non pianger dinnanzi a tante rovine quand'esse contrastan così smaccatamente co' le rovine morali e culturali odierne, d'esti occupanti che se ne stanno ammassati ne' lor palazzi? Roma tua, caput mundi, città etterna, dissangua accerchiata dall'urbanizzazion selvaggia che l'assedia. Tutt'intorno 'na fitta giungla de cemento, casermoni, fabbricati e palazzi e condominii eretti sanz'arte e sanza 'l minimo gusto del bello, come tante casupole per topi accatastate una 'n fila all'altra e in mezzo il Colosseo, i fori, il Pantheon, Roma, quella imperiale, assalita dall'ignoranza bruta dell'ultracapitalismo che non tende ad altro se non al brutto, a la miseria, a lo scempio. Vieni a veder patria dannata, codesta Roma tua che piagne, vedova e sola e dì e notte chiama: "Cesare mio, perché non m’accompagne?
"[3]
E così tant'altre città tue oggi, divorate da lo stesso male a stelle e strisce che c'ha appestato tutti. Piangi Italia mia, che ben hai donde[4]. Secoli e secoli per divenir nazione unita ufficialmente e guarda 'l risultato!
No, forse non sei fatta per esser Nazione, Stato, Regno o Repubblica, difatti esistevi da molto prima e ben delineata ugualmente; forse nasci soprattutto come terra de cultura, come ritrovo d'artisti attratti da' tuoi paesaggi e dal tu' clima, come circolo de geni intenti ad innovare 'l mondo. Forse sei semplicemente un luogo ne la testa d'ogne uomo che s'apre quando pensa alla bellezza. Sei più un'idea astratta, più una fantasia che un'istituzione, eppur esisti, sei concreta, reale, come i tuo' monumenti in marmo e travertino. Stuprata e saccheggiata da orde germaniche, bizantine, longobarde, che non avean mani a sufficienza per depredar una così sterminata ricchezza, vedesti 'l corpo tuo seguitamente spolpato e 'nsanguinato da guerre fratricide comunali de le opposte fazion dei guelfi e ghibellini. Eppure l'innovazion de' tuoi comuni liberi oggi sarebbe un sogno e rimpiango quel tempo tanto 'nfangato dagli storici ch'accostarono 'l medioevo agli anni buii in cui v'eran guerre si, violenze di certo, ma pure uno fermento culturale e politico che influenzò l'Europa intiera e che magari oggi vi fosse, in codesto vero medioevo vivente, buio e vòto e sanza Deo. Eccoli i tuo' primi Italiani, con la rivolta de' vespri a Palermo
[5], la battaglia de Legnano[6] e lo risveglio spirituale tracciato da Francesco patrono tuo, lo fervore artistico deflagrò come una bomba su tutta la penisola e ben presto la nascita delle Signorie ti riportò lassù, ove Dante incontrò Beatrice.




1.   Dante Alighieri, Inferno, canto V, versi 25-27

2.   Virgilio, Eneide, proemio dell'opera tradotto da Annibal Caro

3.   Dante Alighieri, Purgatorio, Canto VI, versi 112-114

4.   Giacomo Leopardi, Canti, All'Italia, verso 18

5.   Fu una rivolta popolare scoppiata a Palermo nel 1282 all'ora del vespro del lunedì di Pasqua quando dei soldati francesi arrecarono offesa ad una donna che si era appena sposata e stava uscendo dalla chiesa. Il casus belli sancì così l'inizio della rivolta contro il mal governo degli angioini, che all'epoca dominavano in Sicilia con Carlo I d'Angiò dal 1266, da quando cioè la dinastia francese era subentrata agli svevi dopo la sconfitta di Manfredi. La cruenta rivolta dei vespri sfociò in una guerra lunga vent'anni fino a quando i siciliani, aiutati da Pietro III d'Aragona, riuscirono a scacciare i francesi. Nonostante tutto però la Sicilia non riuscì comunque ad ottenere l'indipendenza, dal momento che nel 1302 con la pace di Caltabellotta l'isola passò semplicemente dalla dominazione angioina a quella aragonese. L'episodio dei vespri assumerà comunque in seguito notevole significato simbolico in ottica risorgimentale, di rivolta contro lo straniero.

6.   Fu uno scontro avvenuto il 29 maggio 1176 tra l'esercito imperiale di Federico Barbarossa e la Lega Lombarda nata dall'alleanza di diversi comuni dell'Italia settentrionale, che per fronteggiare il Sacro Romano Impero Germanico decisero di mettere da parte le reciproche rivalità alleandosi militarmente sotto la guida simbolica di papa Alessandro III. La battaglia, combattuta tra le località di Legnano e Borsano, pose fine alla quinta ed ultima discesa in Italia del Barbarossa, che dopo la sconfitta cercò di risolvere la questione italiana tentando l'approccio diplomatico. Questo sfociò qualche anno più tardi nella pace di Costanza (25 giugno 1183), con la quale l'Imperatore riconobbe la Lega Lombarda dando concessioni amministrative, politiche e giudiziarie ai comuni e ponendo ufficialmente fine al suo tentativo di egemonizzare l'Italia Settentrionale. L'episodio della storica battaglia di Legnano, così come anche quello dei Vespri siciliani, fu inoltre citato da Mameli e Novaro, in quello che sarebbe poi diventato l'Inno nazionale, come esempio di vittoria delle popolazioni italiane su quelle straniere. Legnano fu l'unica città oltre a Roma, ad essere espressamente citata in tale inno.




martedì 10 febbraio 2015

"Il dannato della settimana" - Matteo Renzi

[Codesta nòva rubrica dantesca a cadenza bisettimanale, tratterà de li dannati odierni che lo sottoscritto de volta in volta manderà a giudizio, gittandoli giù vòlti ne l'inferni. A ognun sarà assegnato il su' girone su quel già disegnati dal Poeta, ognuno avrà la giusta punizione, in quanto sono io che la decreta. Confido che lo sommo fiorentino non abbia a prender mal codesta scelta, imperocché gli aggiorno un pochinino le bolge che lasciò troppo a la svelta. Quivi troveremo nòvi mostri, a noi spiacenti e a noi contemporanei, beato te Alighier che non l'hai visti o allora si ch'avresti avuto giron pieni. Qui i dannati niuno li condanna, qui di pien ci s'ha solo i coglioni. 
Chiama Minosse, fammi 'sto favore, diglie che gli mando nòvi nomi.]



Canto I - L'ebetino de Fiorenza




Di dentro de la selva e poco dopo
passata la 'nsegna de lo inferno
chiamai a seguire me in codesto loco

chi un tempo fu guidato da Virgilio.
"O Sommo che dimori nel tu' scritto"
diss'io chiamando l'esule del Giglio

"venuto son quest'oggi al tu' cospetto
per farte aggiornamento de dannati,
del secolo ventuno maledetto".

El Duca mio: "Di nòvi ne son nati?
Credevo che di meglio avremmo avuto!"
e presigli lo braccio incamminati

andammo per lo primo ch'è venuto.
"Codesto, Dante mio, non ha girone
che pure il tu' Minosse chiese aiuto,

sicché decise porlo a turnazione
da un cerchio all'altro, dati li peccati
più vari ch'egli avea sul su' groppone".

Giugnemmo allora in mezzo agli affebbrati
de bolgia dieci indove pel momento,
scontava la su' pena fra i dannati

codesto fregno col su' doppio mento.
E 'l Savio mio ch'andava lì con meco
face uno passo indietro per spavento,

"Siffatta pappagorgia è tutto ego!"
diss'io puntando 'l dito a quell'insano
"tu vienci retro a me, io te ne priego,

che questo Poeta mio, è tu' compaesano!".
"Lo vero?" esclamò lui "e da donde sbuca?" 
"Da uno paesin sull'Arno, che è Rignano".

"N'aveo già messi assai in codesta buca
de nati in terra putta de toscana,
già pria che fossi qui" me disse 'l Duca.

"Però come 'sto figlio de puttana"
fec'io "scommetto mai t'è capitato,
è figlio di Democrazia Cristiana

et ora presidente de lo Stato!".
"Pigliammi per il culo?" disse 'l Sommo
"codesto sgorbio qua vi fa da capo?".

"Sicuro! Gli italiani come stormo
agnedero nel seggio assai felici
perché costui gl'avea attaccato 'l morbo

che se potea magnà co' 80 spicci."
Lo Dotto se schiantò la mano 'n fronte: 
"Lo popolo italiano fa capricci

ma 'nfondo è sempre uguale a quello avante,
che da 'l potere a chi promette meglio,
che prima para 'l culo e po' se pente".

"Codesto presidente del consiglio
che ora manda fumo per le febbri,
vendette fumo e s'accordo con Silvio

colui che imparentò l'egizio a Rubby."
"Chi osa nominar lo Nazzareno?"
parlò lo tronfio a noi, scansànci dubbi

 che boria qui fosse venuta meno.
"Lo sposo tuo sta 'n mezzo a' lussuriosi"
risposi "e bada, tien la lengua a freno!"

Ancor glie pesa 'l capo per gli sforzi
del piombo retto ne la bolgia sesta,
di dove son gli ipocriti più stronzi.

"È giovine, fece carriera lesta!"
disse 'l Maestro a me guardandol bene.
"Rubò 'l primato a quel primo fascista

salendo poco pria di lui al potere.
Ma avante" aggiunsi ancor "fischiava 'n campo
li falli, e provò a farlo de mestiere

ma avea trippa pesante e sempre crampo,
perciò decise abbandonar fischietto
per nòvi giochi 'n mezzo al verde manto.

Così giurò, parola de lupetto
e infatti quella tale gli è rimasta
così come gli usciva nel boschetto.

E pria di fecer parte de la casta
comprò vocale al gioco de la ròta
e dato che fortuna gli ci casca

di certo non tornò con tasca vòta".
"Codesta me la chiami tu gavetta?"
parlommi quasi 'ncredulo 'l Poeta

"codesta a me del cul face trombetta!".
Lo bullo che seguia discorsi nostri,
ce disse: "Si, però te scordi Letta!

Dimentichi che rottamai ministri
e primo cittadino fui a Fiorenza!
Perché al Maestro tuo lo nascondesti?"

Lo Saggio occhi de fòri e fiato senza
se mise coron d'allor sopra a lo ventre
"In questi settecent'anni d'assenza"

me disse "un mi so perso proprio niente!"


venerdì 6 febbraio 2015

"Discorso sopra l'Italia, patria mai nata" - Capitolo I

[Primo capitolo del lungo saggio che sto portando avanti da mesi, intitolato "Discorso sopra l'Italia, patria mai nata". Volutamente scritto in un italiano arcaico a richiamare lo stile classico dei nostri poeti, l'opera sarà pubblicata in esclusiva via via su questo blog un capitolo alla volta, cominciando dal primo dedicato alla lingua.]



DISCORSO SOPRA L'ITALIA, PATRIA MAI NATA
di
Michele Filipponi 



"Italia, il suon del nome tuo sulla punta della bocca
d'una prima sillaba detta a denti stretti
che par esserci eppure non si tocca.

Com'ella t'insinui e come lama metti
a bagno 'l corpo tuo sottile
nel mar che fatalmente affetti,

per terminar gloriosa sul pontile
aperta al mondo e crocifissa
l'ultima vocale tua, ascende come fa Cristo a' aprile".

Italia mia, la riconosci?
La tua vocina che s'alzò in piedi fra le terzine dantesche e vacillò di canto in canto, fanciulla eppure mai così grande.
E so che non son degno, ma avrei voluto esserci.
Ed esser lì quando in terra vulcanica di Sicilia mandasti 'l primo vagito alla corte del compaesano mio Federico II[1] che ti imbastì la culla.
No, neanche a lui son degno. E nemmanco a Cielo D'Alcamo
[2] o a lo “Notaro” da Lentini che meravigliosamente[3] ricamò lo primo sonetto della storia.
Ma chissà chi fu il primo a chiamarti Italia e per qual motivo, se per via d'un antico re mitologico il cui nome è oggi appiccicato a un treno rosso o chissà che altro.
E chissà dove mai andrà a finire lo suono di quel nome, in quale profondità della carne e delle viscere. Pronunziarlo è come riemergere da un'apnea... Italia... respirare la prima aria e sentire 'l primo giro che riempie i polmoni. Chissà poi da dove arriva quel suono.
La lingua, non abbiamo che la lingua.
La perla più preziosa, che potrebbero spogliarci di tutto, lasciarci ignudi, soli, toglierci gli organi, torturarci, financo ucciderci ma sempre saremmo ancora padroni della musica che c'è nel verso che fan le parole nostre.
Oggi Italia mia, colonizzati viscidamente dall'interno da conquistadores d'oltreoceano e da' loro biascicosi vocaboli, unti e scivolosi che per nostra stessa colpa adoperiamo. Non han punta idea i figli tuoi, di cosa stanno perdendo. Che una parola che non vien più adoprata è parola morta che mai più torna. E parola morta chiama a sé altre parole cosicché codesta catena di defunti è il funerale della nostra identità e noi ne siam le vittime si, ma soprattutto i complici.
La lingua tua, contaminata da barbarico gergo anglo-tedesco, trattata da provincialotta con le scarpe rotte, troppo “easy” per esser “strong”. A volte mi chiedo come fai, Italia mia, a non piangere di fronte a tanti figli che pur disponendo delle tue parole, non le scelgono. E rigettandole uccidono te, se stessi e la propria cultura. Mi chiedo come fai a startene lì a guardarci morire.
Dentro americanismi gutturali, sonorità germaniche che partono dall'esofago e si nascondono dietro alle tonsille, con qualche guizzo di lingua fra i denti come fan le serpi. Guardali, come tirano i muscoli del collo. La gola, parlano con la gola: la differenza sostanziale che ci divide. Forse è per questo che fanno così tante guerre... la frustrazione di ciò che rimane "dietro", che non riesce a venir fuori se non in maniera scomposta (al contrario de' loro vocaboli, composti oltremisura) e dal quale ne esce un suono sempre danneggiato, molle, insipido. La differenza che vi è tra un popolo che parla con la gola e uno che parla con la bocca.
La bocca Italia mia, la lingua tua risuona tutta nella bocca, proprio come in un bacio alla francese; che poi è italiano pure quello, chiedete a Enrico II che lo provò la prima volta da Caterina de' Medici, com'è la lingua nostra...
[4] 
E pensare che vi è chi afferma che non sei musicale come altre e che per scriver canzoni non sei adatta. Certi stolti, mi sia permesso il canzonarli come più gli si confà: hanno l'orecchio al “cool”, inteso come italianissimo deretano. Poveri loro!
La lingua tua è netta, Italia mia. Netta come l'orizzonte che divide il mare dal cielo. Prende le labbra, i denti, le gengive, le due arcate, il palato. E non si spaura nell'uscire e non rimane masticata, ma cade tonante su ogni sillaba che par saetta c'entrare il campanile e che rimbomba. Precisa, lascia a' suoi dialetti e alle sue lingue regionali l'arte del guizzo e del trascinamento, l'invettiva dei vocaboli che si creano e si distruggono in un attimo e che svolazzano come fantasticherie della mente. E impara da loro e prende da loro e rende chiaro ciò che loro coltivano nella terra e pescano dall'acqua, poiché tutt'élle fan di questa penisola un grande mercato di suoni all'aperto che strisciano nelle strade e nei campi e luccicano nelle mani aggrinzite dei contadini. L'italiano, figlio del volgar latino, nasce proprio per necessità d'esser compresi.
È chiaro e lineare nell'azione, trasuda di potenza. Dimmi, Italia mia, chi altri al mondo può affermare d'aver lo suo linguaggio intessuto da Dante, dal Petrarca, dal Boccaccio e dalla scuola de' poeti siciliani del sonetto? L'italiano è una lingua romanza, letteraria, scritta ancor prima che detta. Non si può immaginar al mondo di poter far poesia con altro idioma imperocché è stata la poesia stessa a sceglierselo per sé, nell'Inferno delle bolge come nella scalata del Purgatorio infino a riveder le stelle e ancora oltre, nell'Infinito dolce naufragar sull'ermo colle. Niuna al mondo e ribatto il tasto, Niuna, può dire d'aver le proprie radici affondate e forgiate nella più grande opera letteraria di tutti i tempi: la Comedìa. Votata all'arte, la lingua tua sta alla poesia come Dio all'eterno. Inscindibile, sgorgò dall'inchiostro delle penne quando le penne eran piume d'oca e l'Italia, a differenza del suo idioma, ancor nemmeno sulla carta. Lì sei rimasta oggi, Italia mia, patria mai nata: sulla carta.



1.   Federico II Hohenstaufen (Jesi, 26 dicembre 1194 – Fiorentino di Puglia, 13 dicembre 1250) fu Duca di Svevia, re di Sicilia (dal 1198 al 1250), di Germania (dal 1212 al 1220) e Imperatore del Sacro Romano Impero. Meglio conosciuto con l'appellativo di Stupor Mundi, fu uomo straordinariamente colto (parlava ben sei lingue: latino, siciliano, tedesco, francese, greco e arabo) nonché apprezzabile letterato e grandissimo mecenate, il suo regno fu principalmente caratterizzato da una forte attività legislativa e di innovazione artistica e culturale, volta a unificare le terre e i popoli, ma fortemente contrastata dalla Chiesa, di cui il sovrano mise in discussione il potere temporale. Giocò inoltre un ruolo estremamente importante nel promuovere le lettere attraverso la poesia della Scuola siciliana da lui fondata. La sua corte reale a Palermo, dal 1220 circa sino alla sua morte, vide uno dei primi utilizzi letterari di una lingua romanza (dopo l'esperienza provenzale), il siciliano. Tale scuola poetica ebbe una notevole influenza sulla letteratura e su quella che sarebbe diventata in seguito la moderna lingua italiana, tanto da essere salutata con entusiasmo da Dante e dai suoi contemporanei, anticipando di fatto di almeno un secolo l'uso dell'idioma toscano come lingua d'élite letteraria d'Italia. Va a Federico II infine, il merito di aver fondato a Napoli la prima università statale e laica del mondo tutt'ora esistente, il 5 giugno del 1224. 

2.   Poeta e drammaturgo italiano del XIII secolo, fra i più significativi rappresentanti della poesia giullaresca della scuola siciliana, viene ricordato soprattutto per il famoso componimento poetico “Rosa fresca aulentissima”.

3.   Poesia contenuta nelle Rime di Giacomo da Lentini (Lentini, 1210 circa - 1260 circa), massimo esponente della Scuola siciliana nonché notaio, considerato universalmente come l'ideatore del sonetto. 

4.   Tra le tante leggende che circolano intorno alla figura di Caterina de' Medici pare vi sia anche quella di aver introdotto in Francia il cosiddetto “bacio alla fiorentina”. Quel che è certo è che in principio il bacio si chiamasse davvero così e che divenne “alla francese” soltanto in seguito alla seconda guerra mondiale, quando le truppe inglesi tornando a casa dalla Francia riutilizzarono l'espressione attribuendola alle donne francesi. Inoltre tra gli altri rinnovamenti introdotti a Corte da Caterina de' Medici dopo essere andata sposa in Francia, vi fu anche quello della cucina. Fu proprio lei infatti a fondare la famosa “cucina francese” facendo venire a Parigi cuochi dalla Toscana, che divisero per la prima volta i cibi salati da quelli dolci e portarono sulle tavole d'oltralpe la forchetta, allora sconosciuta. Fu sempre lei infine, a diffondere l'uso delle mutande presso le dame di palazzo, essendo questo un indumento necessario per andare a cavallo.