venerdì 29 aprile 2016

INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE IN LINGUA ORIGINALE - Atto sesto


INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE
IN LINGUA ORIGINALE
di
Michele Filipponi


Atto sesto -



La punizione della donna 

Veniamo ora invece al passo più controverso, quello che riguarda la donna. Per millenni questi versi sono stati utilizzati dall'uomo per giustificarne la sottomissione e l'inferiorità e in certi casi lo sono purtroppo ancora oggi. Eppure l'ebraico antico, di per sé, ha un grande rispetto della donna, tanto da riservarle addirittura una seconda persona singolare e una plurale, distinta da quella dell'uomo. Nell'ebraico infatti il “tu” e il “voi” si differenziano anche per genere, regalando quindi alle donne un “tu” e un “voi” esclusivo, tutto per loro. Ma la Bibbia infondo è stata scritta dagli uomini, e pure tradotta dagli uomini. Dunque è inevitabile che la donna ne esca svantaggiata. Però, se chi l'ha scritta è giustificato dal periodo storico e culturale in cui l'ha fatto (ogni libro va letto e ricollegato al contesto in cui questo è stato scritto, la Bibbia ha all'incirca 3500 anni, perciò i rapporti uomo-donna che vi sono descritti sono certamente coerenti al relativo periodo storico), chi l'ha tradotta certamente no. I traduttori hanno aggiunto pesi anziché portare a nudo la superficie. Vediamo allora di fare chiarezza. Le parole incriminate in questo celeberrimo passo sono due: una è “'etzev - עֶצֶב" tradotta “dolore” e l'altra è “yimshal - יִמְשָׁל” tradotta “dominerà”. Partiamo dalla prima. Dice la Bibbia: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze. Con dolore partorirai figli”. Prima di tutto l'ebraico ha “harbàh 'arbèh” cioè “Moltiplicare moltiplicherò”, un'impostazione verbale che può essere tradotta in due modi: o con un verbo preceduto da una congiunzione temporale che dia continuità all'azione ("Mentre moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze") o più frequentemente con un rafforzativo ("Certamente moltiplicherò"), senza dubbio più adatto al nostro contesto. Qualcuno qui traduce “Moltiplicherò grandemente”, è una manipolazione del traduttore, aggiunge un peso che non c'è. Dio non può fare a meno di moltiplicare, vedremo poi perché. In più non sono i dolori e le gravidanze a moltiplicarsi, ma IL dolore e IL parto, non c'è plurale. Ma veniamo alla prima parola incriminata, quella che pesa davvero come un macigno, il termine “'etzev” tradotto “dolore”.
La parola “'etzev” ricorre nell'antico testamento sette volte in tutto e nell'ebraico ha davvero un'infinità di significati, alcuni anche molto diversi fra loro. Si va da “tristezza” a “nervo ottico” tanto per darvi un'idea. Quello che dovete sapere è che le traduzioni che sono state fatte in italiano nel corso dei secoli sono molteplici, per cui per ognuna delle sette volte in cui questa parola ricorre, troverete almeno 5 o 6 traduzioni diverse. Un vero inferno. Va detto però che nella maggior parte dei casi, direi almeno 5 volte su 7, si può dedurre dal contesto che questa parola significhi “fatica, sforzo”. Nel Salmo 127:2 ad esempio, è scritto: “Invano è per voi levarsi presto e coricarsi tardi, mangiatori di pane degli sforzi/'atzavim, mentre il Signore darà al suo prescelto, che se la dorme”, questo passo in alcune Bibbie è tradotto “pane di doglie”, in altre “pane tribolato”, in altre ancora “pane di duro lavoro” ma è evidente che qui il dolore non c'entri nulla. Chi ha una lunga giornata di lavoro, alzandosi presto e coricandosi tardi, mangia un pane di fatica, non di dolore. Stessa cosa per almeno altre tre ricorrenze nel libro dei Proverbi. Mentre invece in Proverbi 15:1 e soprattutto in Geremia 22:28 il termine “'etzev” diventa un mistero. Nel primo caso il verso dice: “La risposta dolce calma il furore, ma la parola dura/'etzev eccita l'ira”, notate che in altre traduzioni la parola "dura” diventa “pungente” o addirittura “molesta”. In Geremia invece “'etzev” è incomprensibilmente “vaso” o in certi casi perfino “idolo”. Non chiedetemi perché. Sia “vaso” che “idolo” in ebraico hanno altre parole. Ma questo è utile per farvi capire quanto la lingua ebraica sia stata deformata e quanto venga deformata tutt'ora dai traduttori, specialmente nel nostro idioma, ricco e preciso in quanto a termini. Il contrario dell'ebraico.
Per quanto concerne il nostro passo dunque, sebbene “'etzev” nella nostra varietà linguistica significhi: “tristezza, fatica, pena, lavoro, sforzo, accorare” perfino “sudore” e in ebraico moderno addirittura “nervo”, credo che la traduzione corretta per Genesi 3:14 sia, come dice giustamente Erri De Luca: “sforzo, fatica”. Non che nel parto non ci sia dolore, ma non potendo esserci tristezza mettendo al mondo un figlio, il termine deve per forza essere svuotato dell'accezione sentimentale negativa, il dolore della donna è meramente fisico e perciò si tratta di “sforzo”, di “fatica” e così va tradotto. Traducendo “dolore” s'aggiunge un peso che non c'è. Anche in questo caso più che essere Dio a punire, è la conseguenza stessa della scelta di Eva a farlo. La donna infatti, còlto il frutto, si è distaccata dalle bestie, dall'agilità istintiva che hanno gli animali selvatici nel partorire. Essa nella gravidanza ha un supplemento di sforzo, non di dolore, rispetto alle altre creature viventi: è questo il prezzo che paga per la conoscenza del bene e del male. Distaccandosi dall'animalesco istinto che facilita il parto, Eva è adesso schiava del proprio cervello raziocinante: è quello ad aumentargli lo sforzo, a farglielo percepire di più. Gli animali infatti non sanno di partorire, partoriscono e basta. Così come non sanno d'essere nudi. Ora Eva mangiato il frutto, sa entrambe le cose e Dio, per quello che la scelta di lei comporta, non può fare a meno di moltiplicare. “Certamente” dovrà farlo, è una moltiplicazione automatica, una conseguenza logica della presa di coscienza, del passaggio da uno stato animalesco ad uno umano. Alla parola “'etzev” perciò va tolto il peso della condanna, non a caso può anche essere letta come una parola composta: “'etz bet”, cioè “albero della dualità”, quello del bene e del male, poiché è da lì che nasce lo sforzo, lo scotto che la donna paga per averci aperto gli occhi. “'Etzev” ha valore numerico 162, come: “נדחק - spinto”, “קול יהוה - voce del Signore”, “הנזק – danno” e “היוצאים – partenza”. Certo, quella di Eva è stata una scelta sicuramente a danno della felicità, ma una scelta che ci ha resi quello che siamo, esseri umani. La voce del Signore è infusa nello sforzo della donna poiché è essa stessa generatrice, anche la voce di Dio ha compiuto uno sforzo nella creazione, non a caso il settimo giorno si riposa, è esausta. Lo sforzo è una benedizione, è il punto di partenza di ogni essere umano che nasce letteralmente dalla spinta. Ogni creatura è figlia di uno sforzo, di una spinta in fuori. Ogni volta che una donna partorisce ricorda a sé stessa e al mondo la scelta di Eva e a noi uomini, manipolatori del testo sacro, il prezzo fisico che ha dovuto pagare per averci donato la conoscenza. Il dono più grande.
Prosegue la Bibbia: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto ed egli ti dominerà”. Eccoci alla seconda parola sovraccarica di pesi: “yimshal - יִמְשָׁל” tradotta “dominerà”. Anzitutto l'originale non parla di “istinto” ma di “desiderio”, questo verso nel corso dei secoli è stato portato come esempio per dimostrare l'inferiorità sessuale della donna. È probabilmente da qui che deriva la definizione di “sesso debole”. Ma c'è differenza fra desiderio e istinto! Da questa traduzione la donna ne esce sottomessa, “l'istinto” è animale (caratteristica che Eva ha perso) e si proietta tutto sul marito dando l'idea di una debolezza per la carne, quasi fosse una ninfomane monogama. Il “desiderio” invece, esatta traduzione dell'originale, è un'espressione totalizzante, racchiude cioè ogni forma di interesse della donna per l'uomo. È come se Dio le dicesse: “A lui dovrà andare il tuo intessere, i tuoi desideri. A lui ti dedicherai anima e corpo” perché egli non è vero che ti dominerà. La parola “yimshal” ricorre 81 volte nella Bibbia, 8 di queste nello stesso libro della Genesi e almeno 7 su 8 ha significato di “governare, reggere, amministrare, presiedere, regolare” in un contesto, nei vari passi, svuotato dell'accezione negativa di dominio, che in italiano sa tanto di tirannia spietata. Un esempio su tutti è Genesi 24:2, che dice: “E Abramo disse al servo più anziano di casa sua, che aveva il governo/hamoscel su tutti i suoi beni...”. Il servo di Abramo amministra, governa, non domina. Un servo non può dominare, dunque il termine non può che avere una valenza positiva. Il servo fondamentalmente, “si prende cura” della sua roba. È questo che l'uomo fa alla donna. Non la domina, la governa, se ne occupa. La signoria dell'uomo è il contrappasso che Dio applica alla donna per aver trasgredito all'unico comandamento, è il freno che Dio pone al lato ribelle di Eva. Il verso “egli ti governerà” non è riservato a una sola persona ma ha due destinatari, è un comando per entrambi. Insomma, quello che viene considerato come il passo più misogino della Bibbia, altro non è in realtà che un'inevitabile constatazione di Dio, conseguente al morso del frutto. Egli dice alle sue creature: “Avete preso una decisione e io vi avevo avvisato. Ora che siete coscienti potete discernere il bene e il male, esattamente come me. Non c'è più posto per voi nel mio giardino. D'ora in avanti dovrete cavarvela da soli e non sarà facile come lo era qui, quando non sapevate d'esseri nudi, d'avere bisogni ed ero io ad occuparmi di tutto. Là fuori sarà dura. Perciò tu donna, che hai avuto l'ardire di trasgredire al mio comando per il potere (fino ad allora esclusivamente divino) d'una conoscenza, dovrai per questo sottostare al governo di tuo marito. Egli si prenderà cura di te. E tu di lui, poiché il tuo desiderio gli sarà rivolto. Io certamente moltiplicherò il tuo sforzo e con sforzo partorirai figli. È inevitabile. Hai scelto di diventare un essere umano, non sei più una bestia ormai. Perciò il supplemento di fatica è un'esclusiva tua. Sei stata tu ha scegliertelo”. Questo per me, dice la Bibbia.

giovedì 28 aprile 2016

INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE IN LINGUA ORIGINALE - Atto quinto


INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE
IN LINGUA ORIGINALE
di
Michele Filipponi


Atto quinto -




La punizione del serpente

E allora vediamole queste punizioni, a partire dalla prima: quella che Dio infligge al serpente. Dice la Bibbia: 
Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, sarai il maledetto fra tutto il bestiame e fra tutte le bestie selvatiche! Tu camminerai sul tuo ventre e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». La prima cosa che si deduce subito da questo passo è che il serpente (come vuole la tradizione ebraica) evidentemente in principio avesse gambe e braccia e che solo in seguito all'intervento divino assunse poi l'aspetto attuale. “Serpente” in ebraico è “nachash - נחש", ultimamente sta passando in rete una fantasiosa versione per cui il serpente in realtà sarebbe un angelo di Lucifero, un serafino nero, la cosa viene giustificata trasformando il termine “nachash” in un nome. Quindi un angelo di nome “Nachash”. Ora, l'ebraico non ha maiuscole e ognuno è libero di vedere nella figura del serpente ciò che vuole, ma è indubbio che questa sia una stronzata. “Nachash” a dire il vero è uno dei pochi termini ebraici che non può essere frainteso dato che nella Bibbia ha sempre (o quasi) il significato di “serpente”. Gli stessi della teoria del serafino affermano che i serpenti erano già stati creati e che dunque l'essere che parla con Eva non può che trattarsi di qualcos'altro dal momento che ha braccia, gambe e voce. Ma è falso, il termine “nachash” compare qui per la prima volta. Quando Dio infatti crea gli animali si parla di “rettili - remes” e di “esseri striscianti - hayah haromeset”, la parola “nacahash - serpente” non c'è, per cui il serpente non era strisciante e lo diventerà solo dopo. Il fatto che questo parli è dovuto senza dubbio alla personificazione di Satana, che prende possesso del suo corpo per ingannare gli uomini. Non a caso infatti la parola “nachash”, vocalizzata in altro modo, significa anche “divinazione, magia, sortilegio”. Questo probabilmente nasce dal fatto che le formule di divinazione dei popoli del Medio Oriente prevedevano molto di frequente l'uso di serpenti nelle procedure sacre. Altro termine che si accosta a “nachash” è “nachoschet - rame”, dunque qualcosa di luminoso, di brillante. Il serpente cela il sortilegio sotto alla brillantezza di rame che serve ad attirare Eva. La connessione tra questi termini è plausibile, mentre è del tutto infondata l'interpretazione di un “nachash” serafino di Lucifero. 
Ma vediamo ora il testo originale, Dio dice davvero quello che riporta la traduzione? Beh, più o meno sì, ma con qualche grande riserva. Anzitutto, tornando al verso in cui c'è l'esordio biblico del serpente, non c'è scritto: “Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto” ma letteralmente: “E il serpente fu astuto più che ogni altro vivente del campo che fece il Signore Dio”. Quindi nell'originale si parla di “vivente del campo” e non di “animale selvatico”, quest'ultima è un'interpretazione dei traduttori, scaturita dall'utilizzo della parola “sadeh - campo” che è stata probabilmente vista come più affine in relazione a qualcosa di selvatico, dunque più specifica delle parole “suolo” e “terra” che in questo caso non vengono usate. Ma sia quel che sia, nel testo originale non compare né la parola “selvatico” né la parola “animale”. Infondo anche Adamo ed Eva sono “viventi del campo”. Il serpente, dice la Bibbia, era il più astuto di tutti i viventi creati da Dio. Ed è logico che sia così! Se fosse stato solo il più astuto fra gli animali selvatici non sarebbe mai riuscito ad ingannare Eva, dal momento che l'essere umano era stato creato per dominare sugli animali, per cui la traduzione non sta in piedi. Arrivando invece al verso della punizione divina, l'originale non ha: “Sarai il maledetto fra tutto il bestiame e fra tutte le bestie selvatiche!” anche perché fra le due categorie non c'è poi questa gran differenza, sempre di animali si tratta, infatti l'originale dice: “Maledetto sii tu più che ogni bestia e più che ogni vivente del campo”. La maledizione divina è totale, ingloba ogni vivente dunque non solo gli animali. Alla maledizione segue poi la punizione, che lo muta nello strisciante essere che tutti conosciamo. Mentre gli enigmatici versi in cui si dice che Dio porrà inimicizia tra la stirpe della donna e quella del serpente, con la prima stirpe a schiacciare la testa della seconda che invece le insidierà il calcagno, questi vengono di solito interpretati non a torto come una profezia della futura venuta del Cristo, figlio appunto d'una donna, che sconfiggerà Satana. In realtà anche qui l'originale non dice “schiacciare” ma riusa il verbo “insidiare”. Dice: “Quello (cioè il seme di lei) ti insidierà la testa e tu insidierai lei il tallone” quasi come se i due contendenti avessero le stesse potenzialità, duellassero con gli stessi mezzi, le stesse armi. Gesù non schiaccia, insidia. Il suo nemico è potente tanto quanto lui, ma sarà il Cristo ad avere la meglio. Questo naturalmente conferisce alla sua vittoria maggior risalto. È un duello ad armi pari quello che vince il Messia. Non c'è un Achille semi-divino contro un Ettore mortale, ma due Zeus che si battono. Tra l'altro in ebraico la parola “hu'” è sia pronome dimostrativo che personale, perciò si usa per dire sia “quello” che “lui” e quel lui è proprio il figlio di Maria. È da notare invece che nella seconda parte del verso il soggetto cambia, cioè Dio non si riferisce più alla stirpe del serpente (come fa per la donna) ma proprio a lui in persona. C'è un “tu”, in ebraico “'attah”, molto chiaro. Il seme di lei t'insidierà la testa e TU insidierai lei il tallone. Quel “tu” è lo smascheramento del Demonio. Dio lo riconosce, fa cadere l'artificio dietro al quale si era nascosto sfruttando un essere del creato. All'inizio parla di una sua stirpe, ma sa che la sua stirpe è lui stesso. Sarà presente quel giorno futuro com'è presente ora. “Tu”, non è più il serpente. “Tu” è direttamente Satana.

mercoledì 27 aprile 2016

INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE IN LINGUA ORIGINALE - Atto quarto


INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE
IN LINGUA ORIGINALE
di
Michele Filipponi


Atto quarto -



Premessa alle punizioni
Ora il racconto diviene famoso per le punizioni che Dio infliggerà ai tre protagonisti. Tutti ricorderanno il serpente che sarà condannato a strisciare sul ventre e a mangiare la polvere per ogni giorno della propria vita, il “partorirai con dolore” inflitto alla donna e il “ti guadagnerai il pane col sudore della fronte” rivolto all'uomo, ma il testo originale dice davvero così? 
Innanzitutto c'è da capire se Dio, in base a quello che è scritto in questo passo, emana delle punizioni contro i tre soggetti oppure semplicemente predice quello che sarà il loro futuro. La maggior parte della critica opta per la prima teoria, ma non mancano esperti biblici che si schierano invece per la seconda. 
Io, da appassionato e novello cultore della lingua ebraica, prima di addentrarci nei dettagli del testo originale, dico la mia e cioè che in base alla costruzione grammaticale delle frasi che l'autore fa pronunciare a Dio, non si può dire che non vi sia presente la volontà di quest'ultimo nel punirli. Nei verbi ebraici che Dio usa infatti è sempre sottinteso il soggetto. Va fatta però, parlando del soggetto, una distinzione molto importante. Dio non dice mai “io” (ed è questo forse ha creare le due correnti di pensiero), ma nel rivolgersi sia al serpente che alla donna usa comunque due verbi che esprimono un soggetto: “porrò” e “moltiplicherò”. È lui che pone e lui che moltiplica. Non lo fa però con Adamo. Nelle parole che Dio rivolge all'uomo non ci sono verbi che sottintendono un soggetto, segno che il Creatore tiene conto della differente gravità di colpevolezza. Al banco degli imputati i tre protagonisti non sono tutti colpevoli allo stesso modo. Adamo è un comprimario nel peccato originale. Non è né l'istigatore né l'istigato, ma lo spettatore passivo. Dio lo giudica colpevole per questo ma non mettendo soggetti nei verbi è come se gli dicesse che la sua punizione non è tanto lui a infliggergliela quanto la conseguenza della scelta di Eva e il suo andargli dietro per imitazione anziché opporglisi. Dice Dio: “Col sudore della faccia mangerai pane” e non “ti farò mangiare pane”. 
Non è direttamente lui ha punirlo ma la storia, che gli rende inevitabile la punizione. Dio non scusa Adamo, anche perché poi la sua condanna non sarà più leggera delle altre, ma sicuramente non pone la sua colpa sullo stesso piano.
Insomma, la volontà di Dio nel punirli è evidente (anche perché se così non fosse significherebbe ammettere che esiste una forza superiore a Dio) ma come vedremo più avanti è pure inevitabile. Il Creatore, proprio come un padre, mette delle proibizioni per i suoi figli (in questo caso una sola!), avvisa loro su quelle che saranno le conseguenze in caso di trasgressione e la disobbedienza si sa, implica sempre un castigo. Fa parte dell'educazione che un buon padre deve dare ai figli. Non sarebbe stato tale se non li avesse puniti. Questa storia è un'allegoria dell'educazione familiare.

martedì 26 aprile 2016

INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE IN LINGUA ORIGINALE - Atto terzo


INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE
IN LINGUA ORIGINALE
di
Michele Filipponi


- Atto terzo -


Il suono dei passi di Dio e la versione della coppia

La cosa meravigliosa è che in questo punto cruciale della storia, dopo che i due hanno mangiato il frutto e si coprono con le foglie di fico, la Bibbia inserisce qui una delle immagini più poetiche e affascinanti del libro. In quel momento infatti è scritto che Adamo ed Eva “odono il suono di Dio che sta passeggiando nel giardino alla brezza del giorno”. Non ricapiterà mai più nella Bibbia d'incontrare un'immagine così umanizzata di Dio. Dio cammina nel proprio giardino, è uomo, ha i piedi e sente la brezza del giorno, dunque ha una pelle. I suoi passi fanno rumore e i due esseri umani, per vergogna della propria nudità si nascondono fra gli alberi. Dio allora chiamando l'uomo dice: “Dove sei tu?” Il lettore di solito non fa caso all'importanza di questa domanda, passa inosservata nel racconto. Ma come “dove sei”? Che Dio è un Dio che chiede “dove sei?” Come può non saperlo? 

Nel libro dell'Esodo (in ebraico "Shemot - Nomi") quando Mosè chiederà a Dio di mostrargli la sua gloria, il Signore risponderà lui che per vederla dovrà andare su una roccia, “in un luogo - dirà il Creatore- che è presso di me”. Dunque da questo verso emerge che non è Dio a stare presso un luogo ma il contrario. Come se Dio si fosse contratto per far posto al mondo, come un esilio volontario che fa supporre che prima della creazione ogni luogo fosse dentro di lui e non presso. Ma qui, nell'Eden, Dio ha perso di vista l'uomo, non sa dove sia finito. Da dopo la cacciata dal paradiso terrestre non sfuggirà più nulla a questo Dio nel corso della storia sacra, nemmeno il sorriso di Sara, la moglie sterile d'Abramo, che aveva riso quando il Signore aveva annunciato al marito, che lei anche se vecchia, avrebbe partorito un figlio, Isacco. Sara credendo impossibile la cosa rise fra sé, ma per timore di Dio negò d'averlo fatto. “No, non ho riso!” dirà lei impaurita. “Si, hai proprio riso” risponderà Lui. Eppure qui Dio chiede “dove sei?”, è uomo fra gli uomini, sentiamo il suo peso, il rumore dei suoi passi, il suo respiro. Nell'Eden Egli sembra al pari delle sue creature, se le gode faccia a faccia, le accarezza, chiama Adamo come farebbe un qualsiasi comune mortale che ha perso di vista un amico. “Dove sei?” non è una domanda retorica, come quella che farà a Caino (“Cosa facesti?”), Dio non sa davvero dove siano finiti Adamo e sua moglie, allora i due escono da dietro agli alberi e l'uomo risponde: “Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto” e a conferma di tutto quanto detto nei precedenti capitoli, Dio dice lui: “Chi ti raccontò di essere nudo? Forse mangiasti dall'albero di cui ti avevo detto di non mangiare?”. Appunto, Dio ha già capito tutto, Adamo non può sapere d'essere nudo, se lo sa è perché ha còlto il frutto. L'uomo spiega la situazione dicendo che è stata la donna a passarglielo e lui l'ha mangiato. Ma in questo passo non c'è un voler incolpare la moglie, semplicemente illustra a un Dio che non ha visto, come si sono svolti i fatti. Attenzione, non è che Dio non sapesse che i due avrebbero mangiato dall'albero, Dio in quanto tale non può non saperlo (l'albero infondo è messo lì apposta), ma la scena descritta nella Bibbia ci restituisce l'immagine di un Dio come assorto, che passeggia spensierato nel suo paradiso terrestre. Boezio, nella sua Consolatio Philosophiae, diceva: "Il Creatore vive in un eterno presente", un presente che non viene mai meno, dunque conosce ogni cosa passata e futura nel momento in cui questa accade, che per lui è sempre "adesso". Per questo non è escluso che possa stupirsene. Dio sa che il giorno in cui Eva coglierà la mela dovrà arrivare e che quel giorno è oggi, ma è rapito a tal punto dalla meraviglia del suo creato che pare dimenticarsene. Si gode il ponentino, l'armonia degli elementi, è felice e non sa dov'è Adamo. Pare un uomo qualunque eppure è un Dio. Un Dio che però si desta e in un attimo torna in sé, Adamo sa d'essere nudo, quel giorno è arrivato. Allora volge lo sguardo ad Eva e chiede: “Cos'è questo che facesti?”. È più o meno la stessa identica domanda che porrà a Caino, con la differenza che verso la donna non c'è retorica e non c'è ira, infatti si tratta di una domanda secca, Dio vuole sapere la versione di Eva, mentre con Caino la domanda verrà subito seguita da un'affermazione densa di rabbia (“Che hai fatto? La voce dei sangui di tuo fratello gridanti a me dal suolo!”). Dice Eva: “Il serpente mi ingannò e io mangiai”. Che meraviglia questa donna! Eva non si nasconde, è audace, non fa la finta tonta di fronte a Dio come farà suo figlio Caino (“Sono forse io il custode di mio fratello?”). Ha appena violato l'ordine divino ed ora ammette la sua colpa. Alla prima decisione della storia umana segue la prima ammissione di responsabilità. No, la donna non è come l'uomo. L'uomo si nasconde portando con sé la moglie, sfugge alla vista di Dio, la donna al contrario, si rivela, s'offre al giudizio del Padre. Il frutto le ha spalancato gli occhi, le porte della conoscenza, per questo nella sua risposta non c'è solo un'ammissione di colpa ma pure un giudizio. Ora e solo ora può rendersi conto che il serpente l'ha ingannata. Lei non si sente “come Dio” perché adesso sa cos'è un Dio. Con questa risposta Eva è diventata un vero essere umano e non se ne è accorta. Non carpisce a pieno il cambiamento che c'è stato e che emerge già di per sé nella sua risposta. Eva “discerne, capisce” che è stata ingannata. Non avrebbe potuto farlo prima. Ma in realtà il serpente, il nemico di Dio, non l'ha completamente ingannata. Più avanti sarà lo stesso Creatore ad ammetterlo, in una frase misteriosamente impostata al plurale in cui qualcuno ha intravisto non a torto un annuncio della trinità. È scritto: “E disse il Signore Dio: «Ecco, l'uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male»". Il serpente dunque almeno su questo punto aveva ragione. Nella sua frase c'era una verità e una menzogna, perché l'uomo ora dovrà davvero morire, ma non è stato il rischio ad ingolosire Eva, bensì il desiderio di capire, questo è stato il vero movente: la curiosità verso la conoscenza, quell'albero “desiderabile per capire”. Il frutto di cognizione che millenni dopo, attratto dalla gravità, sarebbe piombato in testa a Newton, ora ispira un percorso inverso. È còlto da Eva per un'attrazione verso il cielo. È una gravità al contrario. Ascendente.

sabato 23 aprile 2016

INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE IN LINGUA ORIGINALE - Atto secondo


INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE
IN LINGUA ORIGINALE
di
Michele Filipponi


- Atto secondo -



La scelta di Eva

Ma se è stata la donna a cogliere il frutto e non l'uomo, un motivo ci sarà pur stato. Da millenni alla donna si addossa la colpa di aver condannato l'umanità al peccato, di essere stata la stupida che ha còlto il frutto, che si è lasciata abbindolare, che ha trasgredito all'ordine del Creatore. Ma Eva è esattamente l'opposto di una stupida: è curiosa. Nel loro stato animalesco, essa è predisposta molto più dell'uomo alla conoscenza. Se infatti la prima azione che compie quest'ultimo è quella di limitarsi a dare un nome alle cose, la prima azione che fa la donna è quella di sceglierle. Eva è la prima a decidere e a scegliere materialmente di cogliere la propria scelta. In un mondo in cui poi sarà sempre l'uomo ha prendere le decisioni che faranno la storia, è paradossale pensare che la prima decisione sia stata presa da una donna. Fosse dipeso per Adamo saremmo stati sicuramente più felici, ma immensamente stupidi. Adamo infatti non è ubbidiente, è proprio stupido. Ovviamente parliamo di una stupidità innocente, connaturata cioè al suo stato animalesco che lo rende bellissimo in quanto spensierato. Adamo non sa di essere stupido, è Eva che glielo fa scoprire. La scelta materiale è un'invenzione sua. Tutto il pensiero umano è un'invenzione sua. É lei che consegna all'umanità il dono della comprensione, la conoscenza del bene e del male. È lei che ci rende umani, che ci affranca dalla bestialità e ci apre gli occhi a scapito della propria ubbidienza a Dio. Eva non è solo curiosa, ma ha il coraggio dell'incoscienza, carattere distintivo dei giovani, qual'è lei. Sa che cogliendo il frutto “certamente dovrà morire” come gli ha detto Dio, ma qualcuno gli ha istillato il dubbio e il suo cervello seppure in una fase primordiale, riesce ad elaborare il più incosciente e rivoluzionario ragionamento che fino a quel momento potesse compiere e cioè mettere in discussione la parola di Dio. L'albero infondo è un bell'albero e magari il Signore si sbaglia. E poi... che cosa vorrà mai dire morire? Eva e suo marito non possono saperlo, sono poco più che animali, quindi il gioco magari vale la candela. Dio non ha spiegato loro la morte, li ha semplicemente messi in guardia dal cogliere il frutto proibito, come quando il padrone intima al proprio cane di non andare a fare i bisogni nel giardino del vicino. Il cane capisce dal tono che quella non è una cosa da farsi, ma ignora le conseguenze. Non ha, esattamente come Adamo ed Eva, l'intelligenza sufficiente per comprenderlo. Ora, entrambi sono più intelligenti di un cane, ma è la sola Eva a scegliere di agire e a convincere il marito. È lei ha sfidare imprudentemente l'autorità divina, non può sapere che Dio può ogni cosa. Eva non ha la nozione di Dio, non ha idea di che significhi, per lei è semplicemente l'essere che l'ha generata, un padre. E così gli trasgredisce, come fanno tutti i figli.


venerdì 22 aprile 2016

INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE IN LINGUA ORIGINALE - Atto primo


"INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE 
IN LINGUA ORIGINALE"
di
Michele Filipponi


-Atto primo-



L'inganno, il frutto e la trasformazione

L'ebraico antico, quello biblico, è una lingua povera e ricca al tempo stesso. Povera per la scarsa quantità di vocaboli che possiede, ma ricchissima per i vari significati che quegli stessi vocaboli possono assumere a seconda del contesto. Qui sta la sua bellezza e la sua maledizione, che la rende per questo una delle lingue più mal tradotte del mondo. La storia del peccato originale ad esempio ha dato seguito a centinaia di interpretazioni causate da traduzioni diverse. Eva (In ebraico “Chawah – חַוָּה", nome derivante dal verbo “Chayah – vivere”, ossia "colei che dà la vita") è stata appena creata attraverso Adamo (l'ebraico ha “'ish” per l'uomo e “'ishah” per la donna, dunque quest'ultima è una desinenza femminile della parola “uomo – 'ish”, come se Eva fosse “uoma”. Segno dell'unità inscindibile della coppia), dunque dicevamo Adamo ed Eva sono appena stati creati, entrambi sono nudi e non provano vergogna. Questo passaggio, come vedremo più avanti, è importantissimo perché sottolinea una cosa che a molti sfugge e cioè lo stato animalesco dei due protagonisti. A questo punto entra in scena il serpente, “il più astuto di tutti gli animali che Dio aveva fatto”, per convincere Eva a mangiare dall'albero del bene e del male che Dio aveva posto al centro del giardino, ammonendo le sue due creature che se ne avessero mangiato sarebbero sicuramente morti. Il serpente li inganna con buone argomentazioni, dice: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”. Da quel momento l'albero appare ad Eva sotto un'altra luce, diventa improvvisamente “buono da mangiare”, “piacevole agli occhi” e “desiderabile per capire”. Nel testo originale c'è scritto proprio “per capire” e non “per acquistare saggezza” come molte traduzioni riportano. La differenza è importante: acquisire saggezza fa presumere che l'uomo disponga già di una conoscenza di base che la consumazione del frutto proibito eleverà in potenza. Ma la parola “saggezza” (in ebraico “chochmah”) non è presente nel testo, e nella nostra lingua come in tutte le altre ha significato di “sapienza che deriva dall'esperienza”. Mentre “capire” è semplicemente “discernere, distinguere”. Questo “capire” fa assumere alla frase un duplice significato che nell'errata traduzione italiana non può emergere e cioè: Eva vuole sia “capire”, nel senso di saper distinguere il bene dal male, sia “capire” se il serpente le ha mentito oppure no. L'albero è “desiderabile per capire” entrambe le cose. Prosegue il racconto: “Prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”. Ecco la trasformazione, il passaggio dallo stato animalesco a quello umano. Improvvisamente i due “capiscono”, “discernono”. Non diventano saggi come sarà Salomone, ma semplicemente esseri umani dotati di raziocinio. Nessun'altra specie sa di essere nuda. Questa è per l'essere umano la prima intuizione della propria epopea: la sua nudità. Constata un fatto, è nudo e a differenza di prima, ora si vergogna. È il primo sentimento della storia dell'umanità, la vergogna. Un sentimento estraneo al regno animale, esclusivamente umano. La loro presa di coscienza della nudità però è anche un'acquisizione dell'attributo principale del serpente, c'è infatti nella Bibbia una consonanza omofonica tra due parole impossibile da rendere in italiano, si tratta dei termini: “ârûm – astuto” usato per descrivere il serpente e “‘êrûmmim - nudi” usato per descrivere Adamo ed Eva. Ora che appaiono nudi l'uno all'altra si rendono conto che “l'ârûm” si è insidiato fra loro e li ha resi “‘êrûmmim”, simili a lui, inoculandogli il veleno della disobbedienza, quella che fu di Lucifero. Il grande commentatore biblico Rashi spiegò la frase “ed essi conobbero di essere nudi” in questo modo: “Era stato dato loro un comandamento solo, ed essi se ne erano spogliati”.