martedì 3 maggio 2016

"Discorso sopra l'Italia, patria mai nata" - Capitolo XVI


DISCORSO SOPRA L'ITALIA, PATRIA MAI NATA
di
Michele Filipponi


- Capitolo XVI -



E son più anni ormai poscia passati, eppur di cozzo in cozzo verso l'abisso procedon le tue scelte, laonde codesto movimento infasciato di nere camicie che nulla di nôvo porta sotto lo splendente Febo1, (giacché fascismo v'è sempre stato in tutte le storie et in ogne vita e politica anco democratica e non per questo perciò fu sempre male, in guisa che puro 'l popolo spesse volte ne trasse enormi benefici) codesto movimento dicevo, di macabra parodia or veste panni. E tratteggia usi e costumi e motti e detti da farne una cultura da macchietta, giocolando coll'antichi riti romani, riduce la gloria ad una farsa in màscara, una carnevalata composta da migliaia di Pulcinella, ma armati et esaltati dall'Alcide2 pappagorgiato e dunque pericolosi. Fu questo 'l fascismo italico, ch'assunse da quinci innanzi valore in tutto 'l mondo di dittatura et anti-democraticità quando in realtà altro non si trattò che di mero totalitarismo grottesco, d'una armata Brancaleone presa su il serio e che su il serio si pigliava e perciò incandescente divenne 'n braccio all'Europa (che d'alcune parti scottar si fece, finendosi per bruciar con esso lui), d'un pauroso scherzo della natura, bande di soldatini marcianti a braccio teso, di cui aver timor e risa suscitando al tempo istesso. Codesto, o triste Ausonia3, fu 'l fascismo italico... la carnevalata del potere, ch'ebbe effetto su quest'ultimo di deformante parodia, così ch'amava presentarsi al pubblico arlecchinando abiti da suscitar risa molte, ancor oggi. Coi sua pantalon grigioverdi, la nera camicia, 'l moschetto in braccio e 'l fez4 in capo così come usavan l'ottomani. Eppuro folle oceaniche vennero incantesimate propio da quell'Eracle imbolsito de noaltri, che ritornò a far stragi in Africa5 come li suoi democratici predecessori et in patria seppe sfruttar li nôvi ingegni de propaganda quali radio e cinema, costruendosi così di giorno 'n giorno 'l propio culto. E gli italiani? Deh, 'briachi di Duce! Parecchi d'essi lo seguirno seppur non in toto, giacché qualcun si ritrasse (et manifestandolo finì carezzato da' manganelli e dissetato di ricino), ma la più larga parte fu quella che in tutte l'epoche vince la disputa, ossia la razza scellerata degli ignavi e degli affaristi che di palo in frasca spiccano salti a seconda di dove pende la bilancia, cosicché ogne potere di passaggio vien da essi assecondato o ignorato nel rimbombo d'un silenzio assenso. E questo lo vediamo ancora oggi ne' vecchi cinegiornali, quando baldanzoso come Turno in faccia al pio Enea6, tronfio dal bancone di Piazza Venezia, pavoneggia le mosse stentoree lanciando versi forgiati dalle fiamme d'Ares7, con voce piena verso la folla. E quella che lo acclama e risponde a grido, come tante invasate Baccanti in preda alla frenesia estatica di Dioniso8. O sì, evoè satàn, evoè satàn alèppe!9 Eccoli i tuoi italiani... d'un tratto tutti divenuti merdosissimi come la puttana Taide, che rispuose al Duce suo quando disse: “Ho io grazie grandi appo te?” - “anzi maravigliose!”10. Oh adulante folla d'inutili ruffiani! Qual sortilegio ti colse? Perché 'l facesti? Prostrarti a tal punto dinnanzi a un tiranno fello!11 Ma 'l popolo facea, come i più fanno, ch'ubbidiscon più a quei che più in odio hanno12, sicché difatti, benché i più assecondassero l'onda, vi fu chi con coraggio e a costo de la vita, notò controcorrente in verso al boia.
Giunsero le leggi fascistissime, la caccia al giudìo, a lo zingaro, a lo storpio, a l'obiettore, all'antipatico, al dirimpettaio, al parente, al padre. Giunse l'armaggedon de' popoli, il buio della storia. Ahi dura terra, perché non t'apristi?13 quando oltralpe pigliò potere la nôva creatura sorta dal seme del movimento italico, una progenie teutonica, determinata, estranea alla paterna cialtroneria nostrana che proclamava rigore e disciplina, obbedienza e lealtà ma alla “se famo du' spaghi”, alla “vedi 'o mare quant'è bello”, alla “je damo de pizza e mandolino”. Il primogenito alemanno, malato dell'istessa ideologia del babbo, niente avea di Pulcinella o d'Arlecchino, niente di Bertoldo o Cacasenno, di Bertoldin14 o un che di fantozziano. Metodico, risolutivo, feroce, niun riso suscitava a guardarlo. Era tedesco, figlio d'un megalomane cialtrone italiano; e come 'l primo venne preso su il serio. E più del primo si credêa ariano. E non sapêa ridere. E non facêa ridere. 
Era tedesco.




1.  È l'epiteto del dio Apollo nella mitologica greca, poiché esso veniva rappresentato come il sole. Febo infatti (in greco “phoibos”) significa “splendente”.

2.  È l'epiteto poetico di Eracle, così chiamato in quanto Alceo (Re di Tirinto) era suo nonno putativo. Va ricordato però che Eracle fu concepito da Alcmena e Zeus, che prese le sembianze del marito di lei, Anfitrione. Alceo quindi, per chiarire, sarebbe il padre di Anfitrione. In questo contesto, Eracle, l'eroe greco delle 12 fatiche, simbolo della potenza virile del corpo, viene accostato ironicamente alla figura di Mussolini.

3.  “Ausonia”, che prende il nome dall'antico popolo degli Ausoni stanziati nel centro-sud Italia, fu un termine poetico greco e latino, con cui venne identificata l'intera penisola, già in epoca romana.

4.  Il “fez” è un copricapo maschile di lana, che prende il nome dalla città di Fez in Marocco, da cui sembra che sia originario, anche se la sua maggiore diffusione si è avuta in Oriente, in particolar modo nella Turchia degli Ottomani. Fu adottato dal fascismo non più nell'originale versione rossa, ma nera.

5.  Si fa qui riferimento alla guerra d'Etiopia del 1935-36, combattuta dall'Italia fascista contro uno degli ultimi due stati africani indipendenti rimasti, l'impero d'Etiopia, che in sette mesi di combattimenti (caratterizzati anche dall'impiego massiccio di armi chimiche da parte italiana) venne infine sconfitto annettendolo così all'impero coloniale italiano.

6.  Turno fu il re dei rutuli che nel Lazio sfidò Enea esule da Troia, nel dodicesimo ed ultimo libro dell'Eneide di Virgilio. L'eroe rutulo, che prima dello scontro finale, sprezzante del nemico, definì Enea un effeminato, verrà infine sconfitto da quest'ultimo ed ucciso senza pietà.

7.  Ares fu il dio greco della guerra, che i romani chiamarono Marte.

8.  Il dio greco Dioniso (Bacco per i romani), fu il dio del vino, dell'estasi e della liberazione dei sensi. Il suo culto veniva festeggiato durante i Baccanali, dalle sue devote seguaci, le Baccanti, che vestite con pelli d'animali morti, danzando e cantando, celebravano il Dio in preda all'estasi più totale.

9.  La frase di giubilo in questione, che ha qui significato satirico nei confronti dell'idolatria che la folla di piazza Venezia esterna verso Mussolini, non è altro che un miscuglio tra il grido di gioia delle Baccanti in estasi (“Evoè”, tant'è che Bacco prese l'appellativo di Evio proprio per questo motivo) e il celeberrimo incipit del settimo canto dell'Inferno dantesco in cui Pluto esordisce contro i due poeti, dicendo: “Pape Sàtan, pape Satan aleppe!”, frase dal significato misterioso, malefica e probabilmente senza un senso preciso.

10.  Taide fu un personaggio della commedia dell'Eunuchus di Terenzio, rappresentate una prostituta amante del soldato Trasone. Nella prima scena del III atto il soldato chiede al mezzano della donna, Gnatone, se ella avesse gradito il dono di una schiava. Alla questione se Taide lo ringraziasse molto, ha in risposta "Ingentes" cioè "moltissimo". Questo episodio, citato da Cicerone nel suo De Amicitia, quale esempio palese di adulazione, poiché alla domanda alla quale bastava rispondere con un sì venne data una risposta spropositata, verrà poi ripreso anche da Dante nella Commedia (e noi è a quella che facciamo riferimento) nei versi 133-135 del XVIII Canto dell'Inferno, che recitano: “Taïde è la puttana che rispuose al drudo suo quando disse "Ho io grazie grandi appo te?": "Anzi maravigliose!". Nel nostro caso, la terzina è stata rivisitata sostituendo a “drudo” la parola “Duce” con significato ironico e satirico verso il servile e ridicolo atteggiamento italico, riassunto nel famoso motto del “Mussolini ha sempre ragione”.

11.  Dante Alighieri, Inferno, Canto XXVIII, v. 81. Il “tiranno fello” a cui si riferisce Dante è Malatestino I Malatesta detto dell'Occhio (per il fatto che ne aveva perso uno) che fece “mazzerare”, ossia annegare in sacchi piombati presso Cattolica “i due miglior da Fano”, Guido del Cassero e Angiolello da Carignano.

12.  Ludovico Ariosto, Orlando furioso, canto XXXVII, ottava 104

13.  Dante Alighieri, Inferno, Canto XXXIII, verso 66

14.  “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno” sono i tre protagonisti sgangherati della raccolta di racconti dal titolo omonimo, scritti nel 1620 da Giulio Cesare Croce. Nel 1984 Monicelli ne fece una famosa e deliziosa versione cinematografica con protagonisti Tognazzi, Sordi e Lello Arena.


lunedì 2 maggio 2016

INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE IN LINGUA ORIGINALE - Atto settimo


INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE
IN LINGUA ORIGINALE
di
Michele Filipponi


Atto settimo -




La punizione dell'uomo

Per quanto concerne invece il passo che riguarda la punizione di Adamo, anche qui il senso della traduzione rischia di stravolgere l'originale. Ma vediamolo nel dettaglio. Dice la Bibbia ufficiale della CEI: “All'uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero, di cui ti avevo comandato: 'Non ne devi mangiare', maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!»
. Dio dunque maledice la terra, la materia di cui è fatta la sua creatura. Ma perché lo fa? Che colpa ha la terra infondo? Qui c'è da chiarire subito una cosa: anche in questo caso infatti, come per Eva, la punizione che Dio infligge non scaturisce tanto da lui, quanto dalla conseguenza della consumazione del frutto. Questo punto non va mai dimenticato. Il Signore è l'esecutore materiale della condanna, ma i due si puniscono da soli quando decidono di diventare esseri umani dotati di coscienza. Il Creatore non può fare a meno di punirli, per le regole che aveva imposto. Infatti in questi versetti Dio punisce sì, ma attraverso una constatazione logica che dalla traduzione purtroppo non può emergere. Nell'originale infatti la frase “maledetto sia il suolo per causa tua” in realtà non ha un verbo. Questo non deve stupire, la lingua biblica molto spesso sottintende i verbi. Solo che qui il verbo scelto è sbagliato. L'ebraico ha “'arurah ha'adamah” cioè “maledetto il suolo”. L'aggettivo “maledetto” in questo caso è predicativo, cioè va collegato al sostantivo di riferimento “suolo” mediante un verbo, che il traduttore ovviamente deve scegliere in base al contesto della frase. Il verbo non c'è, va scelto. Ora, la situazione dei tempi verbali nella lingua ebraica è molto complessa e non sto qui a spiegarla, ma dal momento che immediatamente dopo viene usato un futuro (“con dolore ne trarrai il cibo”) non si capisce perché qui il verbo scelto debba essere “sia” anziché “sarà”. A mio parere il verso dovrebbe essere: “Maledetto sarà il suolo per causa tua”. La scelta di questo verbo in italiano chiarifica il senso. Dio constata quello che sarà un fatto. L'uomo, scegliendo d'acquisire la conoscenza, acquisisce anche il male, quello che lo porterà a sfruttare la terra, a violentarla per trarne profitto. Adamo, perduta l'animalesca innocenza dell'Eden, non si contenterà più del prodotto spontaneo che lì vi cresceva. E Dio glielo dice: ora la terra di cui sei fatto diverrà per te maledetta, dovrai sudare per trarne sostentamento e la tua avidità la renderà tossica, ostile. Poco prima, in Genesi 2:15, il Signore ponendo l'uomo nell'Eden, consegnava a lui la responsabilità di quella terra con il compito di “servirla e custodirla”. Due verbi ebraici perennemente mal tradotti. Specialmente il primo che di solito diventa “lavorarla” o “coltivarla”. In questo modo si evita al lettore di fare i collegamenti. Servire e custodire infatti sono gli stessi verbi del culto dovuto alla divinità. Dio va servito e custodito esattamente come la terra e spetta all'uomo, posto fra la terra e il cielo, l'opera di congiunzione. Ma Adamo ha violato il comandamento divino ed ora il suolo è in pericolo. È per questo che nell'Esodo Dio introduce lo Shabbat della terra, poi addirittura ampliato nel Levitico ed esteso ulteriormente nel Deuteronomio. Shabbat in ebraico è sia “riposo” che “sabato” che “cessazione”. La terra ne ha diritto ogni 7 anni per un anno intero. Dice Dio a Mosè: “Sei anni la seminerai e raccoglierai il suo prodotto (notate: suo prodotto. Cioè della terra, non dell'uomo). Il settimo le darai remissione. Sarà un anno di completo riposo per la terra. Ciò che essa produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e al forestiero che è presso di te; al tuo bestiame e agli animali che sono nel tuo paese”. Ed è sempre qui e sempre per amore della terra, che Dio introduce l'anno giubilare, uno dei comandamenti più rivoluzionari di tutti i tempi. Magari venisse applicato oggi! Il giubileo, da farsi ogni 49 anni (7x7), è il rimescolamento della società. Non c'è solo il riposo della terra ma la restituzione di essa a coloro che l'avevano perduta. Gli schiavi e i prigionieri divengono uomini liberi con l'aggiunta della buona uscita, i creditori annullano le riscossioni, Dio azzera i debiti al mondo ed ogni essere umano ha il diritto (e l'obbligo) di ricominciare. Questa norma è fatta per favorire uno sviluppo equilibrato a 360 gradi della società. Dio ci ricorda che l'uomo, così come la terra, appartengono a lui. Il diritto di proprietà è sempre provvisorio. La terra acquistata è in realtà perennemente in fitto presso il proprietario. Lo Shabbat quindi è la contro-misura che Dio prende in conseguenza del peccato originale, per salvaguardare l'ambiente dall'uomo. È una riforma ambientalista la sua. Obbliga l'uomo a voler bene alla terra, a vantaggio di entrambi. Ma tornando alla punizione divina, ricompare nel passo della condanna ad Adamo la parola “'etzev”, pure qui tradotta “dolore”. Ma che cavolo c'entra il dolore con la terra? È chiaro che si tratta di “fatica”, di “sforzo”, un'ulteriore dimostrazione del reale significato di questo termine. Adamo ne trarrà il cibo con "fatica” e col “sudore della faccia”. E giusto per far la rima, del dolore non c'è traccia. Le ultime parole che Dio gli riserva prima di scacciarlo sono la conferma del “mot tamut”, il “certamente morirai” che il Signore aveva confessato ad Adamo qualora questo avesse còlto il frutto. L'uomo sarà così costretto a tornare alla terra, perché ad essa appartiene, da essa è stato tratto. La traduzione compie qui un piccolo errore, dice: “Polvere tu sei e in polvere ritornerai”, che a me fa sempre venire in mente il latte in polvere, come se Adamo finita la corsa, tornasse polverizzato in un barattolo. Ma l'uomo non torna in polvere, torna alla polvere. C'è una dissoluzione nella terra e non in terra, che riproduce il percorso inverso della sua creazione. È materia che riassorbe sé stessa. Così come era stato sputato fuori dal suolo per essere modellato, ora come quando il bambino tira su lo spaghetto con la bocca, l'uomo viene risucchiato all'indietro. Riportato al suo stato grezzo. Adamo è un semi-lavorato che il padreterno disfa. È il castello di sabbia che torna alla sabbia, che perde la forma e dunque la prerogativa di “castello”. Allo stesso modo, ma per addizione linguistica, che “Adam - Adamo” ridiventa “'adamah - suolo”, riacquista cioè la consonante sottratta “ה - he”, quella che nell'alfabeto ebraico rappresenta la nascita, la distinzione e la specificità. È la lettera che perde la parola “suolo” quando Dio trae da esso l'uomo. Pure questa consonante è in prestito, va restituita al legittimo proprietario. "Suolo - אֲדָמָה" ha valore numerico 50, come le parole: "דום - destino”, "הָאָדָם – essere umano” e “הגאולה – riscatto”. Quel riscatto che Adamo pagherà con l'avversità della terra, per aver voluto acquisire la conoscenza. In pratica paga in natura, con la materia di cui è fatto, quella stessa materia che d'ora in avanti gli si rivolterà contro costringendolo alla fatica per trarne sostentamento. È questo il contrappasso che Dio pone all'uomo. Ma “suolo - אֲדָמָה” ha soprattutto lo stesso valore numerico di "אב ואם – padre e madre”. Una cosa che in effetti non siamo mai portati a pensare, e cioè che Adamo a ben vedere non ha genitori. In quanto prima creatura è orfano. Ma, insegna appunto la lingua ebraica, è un orfano solo apparente. Bisognerebbe ricordarselo quando sentiamo parlare di “madre terra”... la terra in realtà per l'uomo è sia padre che madre. Copre entrambi i ruoli. Ogni volta che un uomo muore si ricongiunge ai suoi antenati costituenti, ai suoi genitori unificati: la terra. 
In conclusione: la punizione divina che Dio infligge alle due creature va svuotata dell'ira. Dio mantiene la parola, da Padre Creatore applica il castigo ai figli disobbedienti, ma non c'è collera nel suo linguaggio. Quella verrà più avanti e sempre con più frequenza, a punire un uomo oramai marcio dentro, carico di imperfezioni, che si crogiola nel male. Arriverà addirittura al diluvio, alla distruzione del creato, talmente è disgustato dalle sue creature. L'apocalisse, che è l'ultimo libro della Bibbia, in realtà avviene nel primo. Dio mette fine al mondo all'inizio dell'antico testamento, non alla fine. Lì sì che c'è l'ira di Dio. Ma non qui, qui Dio prende atto del gesto e a sua volta la punizione che impone, consiste proprio nel far prendere atto agli uomini di ciò che hanno fatto. Il Creatore non ce l'ha con loro, ama ancora Adamo ed Eva. Per questo il primo gesto che compie, ancora prima di scacciarli, è fare loro tuniche di pelli. Dio veste i suoi figli. Questa è l'unica cosa materiale che gli uomini erediteranno dall'Eden. È un segno d'amore verso la vergogna che i due provano ora nel sentirsi nudi per la prima volta, a causa della consumazione del frutto. Come un qualunque padre che allontana da casa i propri figli oramai indipendenti, Dio dona loro una velata carezza, nascosta dietro all'apparente bisogno. Mette un cappotto sulle spalle dei figli, dice loro: copritevi bene, non prendete freddo. State attenti. Là fuori ora sarà diverso. Sarà un'altra storia. Ma io ci sarò sempre per voi. Voi piuttosto, non dimenticatevi di me. 
E adesso figliuoli... fuori.

venerdì 29 aprile 2016

INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE IN LINGUA ORIGINALE - Atto sesto


INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE
IN LINGUA ORIGINALE
di
Michele Filipponi


Atto sesto -



La punizione della donna 

Veniamo ora invece al passo più controverso, quello che riguarda la donna. Per millenni questi versi sono stati utilizzati dall'uomo per giustificarne la sottomissione e l'inferiorità e in certi casi lo sono purtroppo ancora oggi. Eppure l'ebraico antico, di per sé, ha un grande rispetto della donna, tanto da riservarle addirittura una seconda persona singolare e una plurale, distinta da quella dell'uomo. Nell'ebraico infatti il “tu” e il “voi” si differenziano anche per genere, regalando quindi alle donne un “tu” e un “voi” esclusivo, tutto per loro. Ma la Bibbia infondo è stata scritta dagli uomini, e pure tradotta dagli uomini. Dunque è inevitabile che la donna ne esca svantaggiata. Però, se chi l'ha scritta è giustificato dal periodo storico e culturale in cui l'ha fatto (ogni libro va letto e ricollegato al contesto in cui questo è stato scritto, la Bibbia ha all'incirca 3500 anni, perciò i rapporti uomo-donna che vi sono descritti sono certamente coerenti al relativo periodo storico), chi l'ha tradotta certamente no. I traduttori hanno aggiunto pesi anziché portare a nudo la superficie. Vediamo allora di fare chiarezza. Le parole incriminate in questo celeberrimo passo sono due: una è “'etzev - עֶצֶב" tradotta “dolore” e l'altra è “yimshal - יִמְשָׁל” tradotta “dominerà”. Partiamo dalla prima. Dice la Bibbia: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze. Con dolore partorirai figli”. Prima di tutto l'ebraico ha “harbàh 'arbèh” cioè “Moltiplicare moltiplicherò”, un'impostazione verbale che può essere tradotta in due modi: o con un verbo preceduto da una congiunzione temporale che dia continuità all'azione ("Mentre moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze") o più frequentemente con un rafforzativo ("Certamente moltiplicherò"), senza dubbio più adatto al nostro contesto. Qualcuno qui traduce “Moltiplicherò grandemente”, è una manipolazione del traduttore, aggiunge un peso che non c'è. Dio non può fare a meno di moltiplicare, vedremo poi perché. In più non sono i dolori e le gravidanze a moltiplicarsi, ma IL dolore e IL parto, non c'è plurale. Ma veniamo alla prima parola incriminata, quella che pesa davvero come un macigno, il termine “'etzev” tradotto “dolore”.
La parola “'etzev” ricorre nell'antico testamento sette volte in tutto e nell'ebraico ha davvero un'infinità di significati, alcuni anche molto diversi fra loro. Si va da “tristezza” a “nervo ottico” tanto per darvi un'idea. Quello che dovete sapere è che le traduzioni che sono state fatte in italiano nel corso dei secoli sono molteplici, per cui per ognuna delle sette volte in cui questa parola ricorre, troverete almeno 5 o 6 traduzioni diverse. Un vero inferno. Va detto però che nella maggior parte dei casi, direi almeno 5 volte su 7, si può dedurre dal contesto che questa parola significhi “fatica, sforzo”. Nel Salmo 127:2 ad esempio, è scritto: “Invano è per voi levarsi presto e coricarsi tardi, mangiatori di pane degli sforzi/'atzavim, mentre il Signore darà al suo prescelto, che se la dorme”, questo passo in alcune Bibbie è tradotto “pane di doglie”, in altre “pane tribolato”, in altre ancora “pane di duro lavoro” ma è evidente che qui il dolore non c'entri nulla. Chi ha una lunga giornata di lavoro, alzandosi presto e coricandosi tardi, mangia un pane di fatica, non di dolore. Stessa cosa per almeno altre tre ricorrenze nel libro dei Proverbi. Mentre invece in Proverbi 15:1 e soprattutto in Geremia 22:28 il termine “'etzev” diventa un mistero. Nel primo caso il verso dice: “La risposta dolce calma il furore, ma la parola dura/'etzev eccita l'ira”, notate che in altre traduzioni la parola "dura” diventa “pungente” o addirittura “molesta”. In Geremia invece “'etzev” è incomprensibilmente “vaso” o in certi casi perfino “idolo”. Non chiedetemi perché. Sia “vaso” che “idolo” in ebraico hanno altre parole. Ma questo è utile per farvi capire quanto la lingua ebraica sia stata deformata e quanto venga deformata tutt'ora dai traduttori, specialmente nel nostro idioma, ricco e preciso in quanto a termini. Il contrario dell'ebraico.
Per quanto concerne il nostro passo dunque, sebbene “'etzev” nella nostra varietà linguistica significhi: “tristezza, fatica, pena, lavoro, sforzo, accorare” perfino “sudore” e in ebraico moderno addirittura “nervo”, credo che la traduzione corretta per Genesi 3:14 sia, come dice giustamente Erri De Luca: “sforzo, fatica”. Non che nel parto non ci sia dolore, ma non potendo esserci tristezza mettendo al mondo un figlio, il termine deve per forza essere svuotato dell'accezione sentimentale negativa, il dolore della donna è meramente fisico e perciò si tratta di “sforzo”, di “fatica” e così va tradotto. Traducendo “dolore” s'aggiunge un peso che non c'è. Anche in questo caso più che essere Dio a punire, è la conseguenza stessa della scelta di Eva a farlo. La donna infatti, còlto il frutto, si è distaccata dalle bestie, dall'agilità istintiva che hanno gli animali selvatici nel partorire. Essa nella gravidanza ha un supplemento di sforzo, non di dolore, rispetto alle altre creature viventi: è questo il prezzo che paga per la conoscenza del bene e del male. Distaccandosi dall'animalesco istinto che facilita il parto, Eva è adesso schiava del proprio cervello raziocinante: è quello ad aumentargli lo sforzo, a farglielo percepire di più. Gli animali infatti non sanno di partorire, partoriscono e basta. Così come non sanno d'essere nudi. Ora Eva mangiato il frutto, sa entrambe le cose e Dio, per quello che la scelta di lei comporta, non può fare a meno di moltiplicare. “Certamente” dovrà farlo, è una moltiplicazione automatica, una conseguenza logica della presa di coscienza, del passaggio da uno stato animalesco ad uno umano. Alla parola “'etzev” perciò va tolto il peso della condanna, non a caso può anche essere letta come una parola composta: “'etz bet”, cioè “albero della dualità”, quello del bene e del male, poiché è da lì che nasce lo sforzo, lo scotto che la donna paga per averci aperto gli occhi. “'Etzev” ha valore numerico 162, come: “נדחק - spinto”, “קול יהוה - voce del Signore”, “הנזק – danno” e “היוצאים – partenza”. Certo, quella di Eva è stata una scelta sicuramente a danno della felicità, ma una scelta che ci ha resi quello che siamo, esseri umani. La voce del Signore è infusa nello sforzo della donna poiché è essa stessa generatrice, anche la voce di Dio ha compiuto uno sforzo nella creazione, non a caso il settimo giorno si riposa, è esausta. Lo sforzo è una benedizione, è il punto di partenza di ogni essere umano che nasce letteralmente dalla spinta. Ogni creatura è figlia di uno sforzo, di una spinta in fuori. Ogni volta che una donna partorisce ricorda a sé stessa e al mondo la scelta di Eva e a noi uomini, manipolatori del testo sacro, il prezzo fisico che ha dovuto pagare per averci donato la conoscenza. Il dono più grande.
Prosegue la Bibbia: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto ed egli ti dominerà”. Eccoci alla seconda parola sovraccarica di pesi: “yimshal - יִמְשָׁל” tradotta “dominerà”. Anzitutto l'originale non parla di “istinto” ma di “desiderio”, questo verso nel corso dei secoli è stato portato come esempio per dimostrare l'inferiorità sessuale della donna. È probabilmente da qui che deriva la definizione di “sesso debole”. Ma c'è differenza fra desiderio e istinto! Da questa traduzione la donna ne esce sottomessa, “l'istinto” è animale (caratteristica che Eva ha perso) e si proietta tutto sul marito dando l'idea di una debolezza per la carne, quasi fosse una ninfomane monogama. Il “desiderio” invece, esatta traduzione dell'originale, è un'espressione totalizzante, racchiude cioè ogni forma di interesse della donna per l'uomo. È come se Dio le dicesse: “A lui dovrà andare il tuo intessere, i tuoi desideri. A lui ti dedicherai anima e corpo” perché egli non è vero che ti dominerà. La parola “yimshal” ricorre 81 volte nella Bibbia, 8 di queste nello stesso libro della Genesi e almeno 7 su 8 ha significato di “governare, reggere, amministrare, presiedere, regolare” in un contesto, nei vari passi, svuotato dell'accezione negativa di dominio, che in italiano sa tanto di tirannia spietata. Un esempio su tutti è Genesi 24:2, che dice: “E Abramo disse al servo più anziano di casa sua, che aveva il governo/hamoscel su tutti i suoi beni...”. Il servo di Abramo amministra, governa, non domina. Un servo non può dominare, dunque il termine non può che avere una valenza positiva. Il servo fondamentalmente, “si prende cura” della sua roba. È questo che l'uomo fa alla donna. Non la domina, la governa, se ne occupa. La signoria dell'uomo è il contrappasso che Dio applica alla donna per aver trasgredito all'unico comandamento, è il freno che Dio pone al lato ribelle di Eva. Il verso “egli ti governerà” non è riservato a una sola persona ma ha due destinatari, è un comando per entrambi. Insomma, quello che viene considerato come il passo più misogino della Bibbia, altro non è in realtà che un'inevitabile constatazione di Dio, conseguente al morso del frutto. Egli dice alle sue creature: “Avete preso una decisione e io vi avevo avvisato. Ora che siete coscienti potete discernere il bene e il male, esattamente come me. Non c'è più posto per voi nel mio giardino. D'ora in avanti dovrete cavarvela da soli e non sarà facile come lo era qui, quando non sapevate d'esseri nudi, d'avere bisogni ed ero io ad occuparmi di tutto. Là fuori sarà dura. Perciò tu donna, che hai avuto l'ardire di trasgredire al mio comando per il potere (fino ad allora esclusivamente divino) d'una conoscenza, dovrai per questo sottostare al governo di tuo marito. Egli si prenderà cura di te. E tu di lui, poiché il tuo desiderio gli sarà rivolto. Io certamente moltiplicherò il tuo sforzo e con sforzo partorirai figli. È inevitabile. Hai scelto di diventare un essere umano, non sei più una bestia ormai. Perciò il supplemento di fatica è un'esclusiva tua. Sei stata tu ha scegliertelo”. Questo per me, dice la Bibbia.

giovedì 28 aprile 2016

INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE IN LINGUA ORIGINALE - Atto quinto


INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE
IN LINGUA ORIGINALE
di
Michele Filipponi


Atto quinto -




La punizione del serpente

E allora vediamole queste punizioni, a partire dalla prima: quella che Dio infligge al serpente. Dice la Bibbia: 
Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, sarai il maledetto fra tutto il bestiame e fra tutte le bestie selvatiche! Tu camminerai sul tuo ventre e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». La prima cosa che si deduce subito da questo passo è che il serpente (come vuole la tradizione ebraica) evidentemente in principio avesse gambe e braccia e che solo in seguito all'intervento divino assunse poi l'aspetto attuale. “Serpente” in ebraico è “nachash - נחש", ultimamente sta passando in rete una fantasiosa versione per cui il serpente in realtà sarebbe un angelo di Lucifero, un serafino nero, la cosa viene giustificata trasformando il termine “nachash” in un nome. Quindi un angelo di nome “Nachash”. Ora, l'ebraico non ha maiuscole e ognuno è libero di vedere nella figura del serpente ciò che vuole, ma è indubbio che questa sia una stronzata. “Nachash” a dire il vero è uno dei pochi termini ebraici che non può essere frainteso dato che nella Bibbia ha sempre (o quasi) il significato di “serpente”. Gli stessi della teoria del serafino affermano che i serpenti erano già stati creati e che dunque l'essere che parla con Eva non può che trattarsi di qualcos'altro dal momento che ha braccia, gambe e voce. Ma è falso, il termine “nachash” compare qui per la prima volta. Quando Dio infatti crea gli animali si parla di “rettili - remes” e di “esseri striscianti - hayah haromeset”, la parola “nacahash - serpente” non c'è, per cui il serpente non era strisciante e lo diventerà solo dopo. Il fatto che questo parli è dovuto senza dubbio alla personificazione di Satana, che prende possesso del suo corpo per ingannare gli uomini. Non a caso infatti la parola “nachash”, vocalizzata in altro modo, significa anche “divinazione, magia, sortilegio”. Questo probabilmente nasce dal fatto che le formule di divinazione dei popoli del Medio Oriente prevedevano molto di frequente l'uso di serpenti nelle procedure sacre. Altro termine che si accosta a “nachash” è “nachoschet - rame”, dunque qualcosa di luminoso, di brillante. Il serpente cela il sortilegio sotto alla brillantezza di rame che serve ad attirare Eva. La connessione tra questi termini è plausibile, mentre è del tutto infondata l'interpretazione di un “nachash” serafino di Lucifero. 
Ma vediamo ora il testo originale, Dio dice davvero quello che riporta la traduzione? Beh, più o meno sì, ma con qualche grande riserva. Anzitutto, tornando al verso in cui c'è l'esordio biblico del serpente, non c'è scritto: “Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto” ma letteralmente: “E il serpente fu astuto più che ogni altro vivente del campo che fece il Signore Dio”. Quindi nell'originale si parla di “vivente del campo” e non di “animale selvatico”, quest'ultima è un'interpretazione dei traduttori, scaturita dall'utilizzo della parola “sadeh - campo” che è stata probabilmente vista come più affine in relazione a qualcosa di selvatico, dunque più specifica delle parole “suolo” e “terra” che in questo caso non vengono usate. Ma sia quel che sia, nel testo originale non compare né la parola “selvatico” né la parola “animale”. Infondo anche Adamo ed Eva sono “viventi del campo”. Il serpente, dice la Bibbia, era il più astuto di tutti i viventi creati da Dio. Ed è logico che sia così! Se fosse stato solo il più astuto fra gli animali selvatici non sarebbe mai riuscito ad ingannare Eva, dal momento che l'essere umano era stato creato per dominare sugli animali, per cui la traduzione non sta in piedi. Arrivando invece al verso della punizione divina, l'originale non ha: “Sarai il maledetto fra tutto il bestiame e fra tutte le bestie selvatiche!” anche perché fra le due categorie non c'è poi questa gran differenza, sempre di animali si tratta, infatti l'originale dice: “Maledetto sii tu più che ogni bestia e più che ogni vivente del campo”. La maledizione divina è totale, ingloba ogni vivente dunque non solo gli animali. Alla maledizione segue poi la punizione, che lo muta nello strisciante essere che tutti conosciamo. Mentre gli enigmatici versi in cui si dice che Dio porrà inimicizia tra la stirpe della donna e quella del serpente, con la prima stirpe a schiacciare la testa della seconda che invece le insidierà il calcagno, questi vengono di solito interpretati non a torto come una profezia della futura venuta del Cristo, figlio appunto d'una donna, che sconfiggerà Satana. In realtà anche qui l'originale non dice “schiacciare” ma riusa il verbo “insidiare”. Dice: “Quello (cioè il seme di lei) ti insidierà la testa e tu insidierai lei il tallone” quasi come se i due contendenti avessero le stesse potenzialità, duellassero con gli stessi mezzi, le stesse armi. Gesù non schiaccia, insidia. Il suo nemico è potente tanto quanto lui, ma sarà il Cristo ad avere la meglio. Questo naturalmente conferisce alla sua vittoria maggior risalto. È un duello ad armi pari quello che vince il Messia. Non c'è un Achille semi-divino contro un Ettore mortale, ma due Zeus che si battono. Tra l'altro in ebraico la parola “hu'” è sia pronome dimostrativo che personale, perciò si usa per dire sia “quello” che “lui” e quel lui è proprio il figlio di Maria. È da notare invece che nella seconda parte del verso il soggetto cambia, cioè Dio non si riferisce più alla stirpe del serpente (come fa per la donna) ma proprio a lui in persona. C'è un “tu”, in ebraico “'attah”, molto chiaro. Il seme di lei t'insidierà la testa e TU insidierai lei il tallone. Quel “tu” è lo smascheramento del Demonio. Dio lo riconosce, fa cadere l'artificio dietro al quale si era nascosto sfruttando un essere del creato. All'inizio parla di una sua stirpe, ma sa che la sua stirpe è lui stesso. Sarà presente quel giorno futuro com'è presente ora. “Tu”, non è più il serpente. “Tu” è direttamente Satana.

mercoledì 27 aprile 2016

INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE IN LINGUA ORIGINALE - Atto quarto


INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE
IN LINGUA ORIGINALE
di
Michele Filipponi


Atto quarto -



Premessa alle punizioni
Ora il racconto diviene famoso per le punizioni che Dio infliggerà ai tre protagonisti. Tutti ricorderanno il serpente che sarà condannato a strisciare sul ventre e a mangiare la polvere per ogni giorno della propria vita, il “partorirai con dolore” inflitto alla donna e il “ti guadagnerai il pane col sudore della fronte” rivolto all'uomo, ma il testo originale dice davvero così? 
Innanzitutto c'è da capire se Dio, in base a quello che è scritto in questo passo, emana delle punizioni contro i tre soggetti oppure semplicemente predice quello che sarà il loro futuro. La maggior parte della critica opta per la prima teoria, ma non mancano esperti biblici che si schierano invece per la seconda. 
Io, da appassionato e novello cultore della lingua ebraica, prima di addentrarci nei dettagli del testo originale, dico la mia e cioè che in base alla costruzione grammaticale delle frasi che l'autore fa pronunciare a Dio, non si può dire che non vi sia presente la volontà di quest'ultimo nel punirli. Nei verbi ebraici che Dio usa infatti è sempre sottinteso il soggetto. Va fatta però, parlando del soggetto, una distinzione molto importante. Dio non dice mai “io” (ed è questo forse ha creare le due correnti di pensiero), ma nel rivolgersi sia al serpente che alla donna usa comunque due verbi che esprimono un soggetto: “porrò” e “moltiplicherò”. È lui che pone e lui che moltiplica. Non lo fa però con Adamo. Nelle parole che Dio rivolge all'uomo non ci sono verbi che sottintendono un soggetto, segno che il Creatore tiene conto della differente gravità di colpevolezza. Al banco degli imputati i tre protagonisti non sono tutti colpevoli allo stesso modo. Adamo è un comprimario nel peccato originale. Non è né l'istigatore né l'istigato, ma lo spettatore passivo. Dio lo giudica colpevole per questo ma non mettendo soggetti nei verbi è come se gli dicesse che la sua punizione non è tanto lui a infliggergliela quanto la conseguenza della scelta di Eva e il suo andargli dietro per imitazione anziché opporglisi. Dice Dio: “Col sudore della faccia mangerai pane” e non “ti farò mangiare pane”. 
Non è direttamente lui ha punirlo ma la storia, che gli rende inevitabile la punizione. Dio non scusa Adamo, anche perché poi la sua condanna non sarà più leggera delle altre, ma sicuramente non pone la sua colpa sullo stesso piano.
Insomma, la volontà di Dio nel punirli è evidente (anche perché se così non fosse significherebbe ammettere che esiste una forza superiore a Dio) ma come vedremo più avanti è pure inevitabile. Il Creatore, proprio come un padre, mette delle proibizioni per i suoi figli (in questo caso una sola!), avvisa loro su quelle che saranno le conseguenze in caso di trasgressione e la disobbedienza si sa, implica sempre un castigo. Fa parte dell'educazione che un buon padre deve dare ai figli. Non sarebbe stato tale se non li avesse puniti. Questa storia è un'allegoria dell'educazione familiare.

martedì 26 aprile 2016

INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE IN LINGUA ORIGINALE - Atto terzo


INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE
IN LINGUA ORIGINALE
di
Michele Filipponi


- Atto terzo -


Il suono dei passi di Dio e la versione della coppia

La cosa meravigliosa è che in questo punto cruciale della storia, dopo che i due hanno mangiato il frutto e si coprono con le foglie di fico, la Bibbia inserisce qui una delle immagini più poetiche e affascinanti del libro. In quel momento infatti è scritto che Adamo ed Eva “odono il suono di Dio che sta passeggiando nel giardino alla brezza del giorno”. Non ricapiterà mai più nella Bibbia d'incontrare un'immagine così umanizzata di Dio. Dio cammina nel proprio giardino, è uomo, ha i piedi e sente la brezza del giorno, dunque ha una pelle. I suoi passi fanno rumore e i due esseri umani, per vergogna della propria nudità si nascondono fra gli alberi. Dio allora chiamando l'uomo dice: “Dove sei tu?” Il lettore di solito non fa caso all'importanza di questa domanda, passa inosservata nel racconto. Ma come “dove sei”? Che Dio è un Dio che chiede “dove sei?” Come può non saperlo? 

Nel libro dell'Esodo (in ebraico "Shemot - Nomi") quando Mosè chiederà a Dio di mostrargli la sua gloria, il Signore risponderà lui che per vederla dovrà andare su una roccia, “in un luogo - dirà il Creatore- che è presso di me”. Dunque da questo verso emerge che non è Dio a stare presso un luogo ma il contrario. Come se Dio si fosse contratto per far posto al mondo, come un esilio volontario che fa supporre che prima della creazione ogni luogo fosse dentro di lui e non presso. Ma qui, nell'Eden, Dio ha perso di vista l'uomo, non sa dove sia finito. Da dopo la cacciata dal paradiso terrestre non sfuggirà più nulla a questo Dio nel corso della storia sacra, nemmeno il sorriso di Sara, la moglie sterile d'Abramo, che aveva riso quando il Signore aveva annunciato al marito, che lei anche se vecchia, avrebbe partorito un figlio, Isacco. Sara credendo impossibile la cosa rise fra sé, ma per timore di Dio negò d'averlo fatto. “No, non ho riso!” dirà lei impaurita. “Si, hai proprio riso” risponderà Lui. Eppure qui Dio chiede “dove sei?”, è uomo fra gli uomini, sentiamo il suo peso, il rumore dei suoi passi, il suo respiro. Nell'Eden Egli sembra al pari delle sue creature, se le gode faccia a faccia, le accarezza, chiama Adamo come farebbe un qualsiasi comune mortale che ha perso di vista un amico. “Dove sei?” non è una domanda retorica, come quella che farà a Caino (“Cosa facesti?”), Dio non sa davvero dove siano finiti Adamo e sua moglie, allora i due escono da dietro agli alberi e l'uomo risponde: “Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto” e a conferma di tutto quanto detto nei precedenti capitoli, Dio dice lui: “Chi ti raccontò di essere nudo? Forse mangiasti dall'albero di cui ti avevo detto di non mangiare?”. Appunto, Dio ha già capito tutto, Adamo non può sapere d'essere nudo, se lo sa è perché ha còlto il frutto. L'uomo spiega la situazione dicendo che è stata la donna a passarglielo e lui l'ha mangiato. Ma in questo passo non c'è un voler incolpare la moglie, semplicemente illustra a un Dio che non ha visto, come si sono svolti i fatti. Attenzione, non è che Dio non sapesse che i due avrebbero mangiato dall'albero, Dio in quanto tale non può non saperlo (l'albero infondo è messo lì apposta), ma la scena descritta nella Bibbia ci restituisce l'immagine di un Dio come assorto, che passeggia spensierato nel suo paradiso terrestre. Boezio, nella sua Consolatio Philosophiae, diceva: "Il Creatore vive in un eterno presente", un presente che non viene mai meno, dunque conosce ogni cosa passata e futura nel momento in cui questa accade, che per lui è sempre "adesso". Per questo non è escluso che possa stupirsene. Dio sa che il giorno in cui Eva coglierà la mela dovrà arrivare e che quel giorno è oggi, ma è rapito a tal punto dalla meraviglia del suo creato che pare dimenticarsene. Si gode il ponentino, l'armonia degli elementi, è felice e non sa dov'è Adamo. Pare un uomo qualunque eppure è un Dio. Un Dio che però si desta e in un attimo torna in sé, Adamo sa d'essere nudo, quel giorno è arrivato. Allora volge lo sguardo ad Eva e chiede: “Cos'è questo che facesti?”. È più o meno la stessa identica domanda che porrà a Caino, con la differenza che verso la donna non c'è retorica e non c'è ira, infatti si tratta di una domanda secca, Dio vuole sapere la versione di Eva, mentre con Caino la domanda verrà subito seguita da un'affermazione densa di rabbia (“Che hai fatto? La voce dei sangui di tuo fratello gridanti a me dal suolo!”). Dice Eva: “Il serpente mi ingannò e io mangiai”. Che meraviglia questa donna! Eva non si nasconde, è audace, non fa la finta tonta di fronte a Dio come farà suo figlio Caino (“Sono forse io il custode di mio fratello?”). Ha appena violato l'ordine divino ed ora ammette la sua colpa. Alla prima decisione della storia umana segue la prima ammissione di responsabilità. No, la donna non è come l'uomo. L'uomo si nasconde portando con sé la moglie, sfugge alla vista di Dio, la donna al contrario, si rivela, s'offre al giudizio del Padre. Il frutto le ha spalancato gli occhi, le porte della conoscenza, per questo nella sua risposta non c'è solo un'ammissione di colpa ma pure un giudizio. Ora e solo ora può rendersi conto che il serpente l'ha ingannata. Lei non si sente “come Dio” perché adesso sa cos'è un Dio. Con questa risposta Eva è diventata un vero essere umano e non se ne è accorta. Non carpisce a pieno il cambiamento che c'è stato e che emerge già di per sé nella sua risposta. Eva “discerne, capisce” che è stata ingannata. Non avrebbe potuto farlo prima. Ma in realtà il serpente, il nemico di Dio, non l'ha completamente ingannata. Più avanti sarà lo stesso Creatore ad ammetterlo, in una frase misteriosamente impostata al plurale in cui qualcuno ha intravisto non a torto un annuncio della trinità. È scritto: “E disse il Signore Dio: «Ecco, l'uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male»". Il serpente dunque almeno su questo punto aveva ragione. Nella sua frase c'era una verità e una menzogna, perché l'uomo ora dovrà davvero morire, ma non è stato il rischio ad ingolosire Eva, bensì il desiderio di capire, questo è stato il vero movente: la curiosità verso la conoscenza, quell'albero “desiderabile per capire”. Il frutto di cognizione che millenni dopo, attratto dalla gravità, sarebbe piombato in testa a Newton, ora ispira un percorso inverso. È còlto da Eva per un'attrazione verso il cielo. È una gravità al contrario. Ascendente.

sabato 23 aprile 2016

INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE IN LINGUA ORIGINALE - Atto secondo


INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE
IN LINGUA ORIGINALE
di
Michele Filipponi


- Atto secondo -



La scelta di Eva

Ma se è stata la donna a cogliere il frutto e non l'uomo, un motivo ci sarà pur stato. Da millenni alla donna si addossa la colpa di aver condannato l'umanità al peccato, di essere stata la stupida che ha còlto il frutto, che si è lasciata abbindolare, che ha trasgredito all'ordine del Creatore. Ma Eva è esattamente l'opposto di una stupida: è curiosa. Nel loro stato animalesco, essa è predisposta molto più dell'uomo alla conoscenza. Se infatti la prima azione che compie quest'ultimo è quella di limitarsi a dare un nome alle cose, la prima azione che fa la donna è quella di sceglierle. Eva è la prima a decidere e a scegliere materialmente di cogliere la propria scelta. In un mondo in cui poi sarà sempre l'uomo ha prendere le decisioni che faranno la storia, è paradossale pensare che la prima decisione sia stata presa da una donna. Fosse dipeso per Adamo saremmo stati sicuramente più felici, ma immensamente stupidi. Adamo infatti non è ubbidiente, è proprio stupido. Ovviamente parliamo di una stupidità innocente, connaturata cioè al suo stato animalesco che lo rende bellissimo in quanto spensierato. Adamo non sa di essere stupido, è Eva che glielo fa scoprire. La scelta materiale è un'invenzione sua. Tutto il pensiero umano è un'invenzione sua. É lei che consegna all'umanità il dono della comprensione, la conoscenza del bene e del male. È lei che ci rende umani, che ci affranca dalla bestialità e ci apre gli occhi a scapito della propria ubbidienza a Dio. Eva non è solo curiosa, ma ha il coraggio dell'incoscienza, carattere distintivo dei giovani, qual'è lei. Sa che cogliendo il frutto “certamente dovrà morire” come gli ha detto Dio, ma qualcuno gli ha istillato il dubbio e il suo cervello seppure in una fase primordiale, riesce ad elaborare il più incosciente e rivoluzionario ragionamento che fino a quel momento potesse compiere e cioè mettere in discussione la parola di Dio. L'albero infondo è un bell'albero e magari il Signore si sbaglia. E poi... che cosa vorrà mai dire morire? Eva e suo marito non possono saperlo, sono poco più che animali, quindi il gioco magari vale la candela. Dio non ha spiegato loro la morte, li ha semplicemente messi in guardia dal cogliere il frutto proibito, come quando il padrone intima al proprio cane di non andare a fare i bisogni nel giardino del vicino. Il cane capisce dal tono che quella non è una cosa da farsi, ma ignora le conseguenze. Non ha, esattamente come Adamo ed Eva, l'intelligenza sufficiente per comprenderlo. Ora, entrambi sono più intelligenti di un cane, ma è la sola Eva a scegliere di agire e a convincere il marito. È lei ha sfidare imprudentemente l'autorità divina, non può sapere che Dio può ogni cosa. Eva non ha la nozione di Dio, non ha idea di che significhi, per lei è semplicemente l'essere che l'ha generata, un padre. E così gli trasgredisce, come fanno tutti i figli.


venerdì 22 aprile 2016

INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE IN LINGUA ORIGINALE - Atto primo


"INDAGINE IN 7 ATTI SUL PECCATO ORIGINALE 
IN LINGUA ORIGINALE"
di
Michele Filipponi


-Atto primo-



L'inganno, il frutto e la trasformazione

L'ebraico antico, quello biblico, è una lingua povera e ricca al tempo stesso. Povera per la scarsa quantità di vocaboli che possiede, ma ricchissima per i vari significati che quegli stessi vocaboli possono assumere a seconda del contesto. Qui sta la sua bellezza e la sua maledizione, che la rende per questo una delle lingue più mal tradotte del mondo. La storia del peccato originale ad esempio ha dato seguito a centinaia di interpretazioni causate da traduzioni diverse. Eva (In ebraico “Chawah – חַוָּה", nome derivante dal verbo “Chayah – vivere”, ossia "colei che dà la vita") è stata appena creata attraverso Adamo (l'ebraico ha “'ish” per l'uomo e “'ishah” per la donna, dunque quest'ultima è una desinenza femminile della parola “uomo – 'ish”, come se Eva fosse “uoma”. Segno dell'unità inscindibile della coppia), dunque dicevamo Adamo ed Eva sono appena stati creati, entrambi sono nudi e non provano vergogna. Questo passaggio, come vedremo più avanti, è importantissimo perché sottolinea una cosa che a molti sfugge e cioè lo stato animalesco dei due protagonisti. A questo punto entra in scena il serpente, “il più astuto di tutti gli animali che Dio aveva fatto”, per convincere Eva a mangiare dall'albero del bene e del male che Dio aveva posto al centro del giardino, ammonendo le sue due creature che se ne avessero mangiato sarebbero sicuramente morti. Il serpente li inganna con buone argomentazioni, dice: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”. Da quel momento l'albero appare ad Eva sotto un'altra luce, diventa improvvisamente “buono da mangiare”, “piacevole agli occhi” e “desiderabile per capire”. Nel testo originale c'è scritto proprio “per capire” e non “per acquistare saggezza” come molte traduzioni riportano. La differenza è importante: acquisire saggezza fa presumere che l'uomo disponga già di una conoscenza di base che la consumazione del frutto proibito eleverà in potenza. Ma la parola “saggezza” (in ebraico “chochmah”) non è presente nel testo, e nella nostra lingua come in tutte le altre ha significato di “sapienza che deriva dall'esperienza”. Mentre “capire” è semplicemente “discernere, distinguere”. Questo “capire” fa assumere alla frase un duplice significato che nell'errata traduzione italiana non può emergere e cioè: Eva vuole sia “capire”, nel senso di saper distinguere il bene dal male, sia “capire” se il serpente le ha mentito oppure no. L'albero è “desiderabile per capire” entrambe le cose. Prosegue il racconto: “Prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”. Ecco la trasformazione, il passaggio dallo stato animalesco a quello umano. Improvvisamente i due “capiscono”, “discernono”. Non diventano saggi come sarà Salomone, ma semplicemente esseri umani dotati di raziocinio. Nessun'altra specie sa di essere nuda. Questa è per l'essere umano la prima intuizione della propria epopea: la sua nudità. Constata un fatto, è nudo e a differenza di prima, ora si vergogna. È il primo sentimento della storia dell'umanità, la vergogna. Un sentimento estraneo al regno animale, esclusivamente umano. La loro presa di coscienza della nudità però è anche un'acquisizione dell'attributo principale del serpente, c'è infatti nella Bibbia una consonanza omofonica tra due parole impossibile da rendere in italiano, si tratta dei termini: “ârûm – astuto” usato per descrivere il serpente e “‘êrûmmim - nudi” usato per descrivere Adamo ed Eva. Ora che appaiono nudi l'uno all'altra si rendono conto che “l'ârûm” si è insidiato fra loro e li ha resi “‘êrûmmim”, simili a lui, inoculandogli il veleno della disobbedienza, quella che fu di Lucifero. Il grande commentatore biblico Rashi spiegò la frase “ed essi conobbero di essere nudi” in questo modo: “Era stato dato loro un comandamento solo, ed essi se ne erano spogliati”.


mercoledì 10 febbraio 2016

"Discorso sopra l'Italia, patria mai nata" - Capitolo XV


DISCORSO SOPRA L'ITALIA, PATRIA MAI NATA
di
Michele Filipponi


- Capitolo XV -



Accadde che 'l Trattato de Versailles scontentò tutti e fu alla base della seconda apocalisse, che scoppiò propio perché se fece tutto pur de non farla scoppiare, co' francesi e inglesi che per paura d'una nôva guerra concedettero a uno folle d'invadere impudentemente Austria e Polonia. E 'n quanto a noi, le terre promesseci a Londra non arrivarono e l'esaltato principe pescarese1 coniò così 'l motto de la vittoria mutilata. Ah se avesse continuato a dedicarse alla poesia soltanto anziché 'nfiammar gli animi de' nôvi nazionalisti occupando Fiume.2
Accadde che nel '29 la crisi impoverì li popoli europei e li riempì di focolari di scontento.
Accadde che su que' focolari vi soffiò uno romagnolo che mise 'n moto 'l destino del mondo, che come un magnete attirò su di sé l'insoddisfazioni tutte, che riempì l'Italia di nôvi simboli d'un sol colore, che ammaliò le folle sguainando la mascella con false promesse de risorgimento, con falsi gesti e falso imperio. Che bardato a lutto s'aprì la strada tra i fori della Roma antica, drizzando 'l braccio a rievocar l'arcaico saluto e ponendose come un novello Cesare. Ave o italico duce de disgrazie! Ave a te o tragico impostore!
Giove capitolino lo guarda da l'olimpico Campidoglio mentre sfila a passo d'anatra co' sua 30.000 fasci a pigliar lo Stato3. Lo guarda mentre de comune accordo lo savoiardo Re4 glielo concede. Lo guarda e non fa motto quando du' anni dopo manda i sicari, investiti del potere d'Atropo5, a recidere lo stame del capo socialista Matteotti6. Et come disse Seneca: "Cui prodest scelus, is fecit".7
È finito 'l tempo degli dei, vecchi e nôvi. Codesto sarà 'l secolo delle bestie, d'anime impaludate nella fanga, dimentiche degli astri, che come porci smerdati sgraveranno idiozie nelle quali, sanza badar, affogheranno. Sarà 'l secolo de' tecnologici bruti ricurvi a terra, ciechi ne la ragione e muti ne la pietà, che ferventissimamente arderanno d'una fede asettica e metodica verso la blasfema e industrializzante ideologia de la morte, ch'arderà a sua volta le carni e l'ossa e gli spirti de li esseri umani rimasti. E le folle... oh le folle, le oceaniche folle d'Europa, di quell'Europa civilizzata da' romani e cristiana divenuta e umanistica fattasi donna, le folle della romantica Europa, riempiranno le piazze d'una orgiastica passione e plaudenti e al corrente delle fabbriche annienta-omini, tutti, a una sola voce, li commenderanno.
O qual vergogna subisti da colui che ti levò la turrita corona8, per tenerla pria per sé solo e poi per gettarla a' piè d'un pazzo germano? Qual vergogna t'insudiciò lo scettro o dolce Esperia?9 Qual fu più grande di quella che ti vide al fianco de' più terribili carnefici dell'omo? Ben provide Natura al nostro stato, quando de l’Alpi schermo pose fra noi et la tedesca rabbia10ma lo pitbull romagnolo che tanto amava sparlar de Dante, non considerò mai Petrarca e te mise come ridicola alleata al servizio propio de' tedeschi o meglio a bàlia, imperocché tanto maldestra quanto impreparata, fosti più un peso pel crudel crucco, ch'altro. E li tuoi figli? Sciaurati che mai non fûr vivi!11 Per vent'anni sottostarono da che esperienzia ebbero ammassata ne' secoli addietro, indove come belanti pecore, or quinci or quindi, al despota di turno con 'gnavia politica acconsentivano. Sciocche e irrecuperabili masse che trucidaste il Nazzareno, a quando piglierete coscienza dello scempio? Vili et esecrande masse, d'allora non maturaste ingegno alcuno!






1.  Gabriele D'Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 Gardone Riviera, 1º marzo 1938) dal 1924 Principe di Montenevoso. Fu uno scrittore, poeta, drammaturgo, militare, politico e giornalista italiano, simbolo del Decadentismo e celebre figura della prima guerra mondiale. In seguito al Trattato di Versailles che scontentò l'Italia, coniò la locuzione di “Vittoria mutilata” in riferimento ai territori promessi e non concessi al nostro paese. Proprio a tal motivo si fece portabandiera delle terre irredenti ed occupò militarmente Fiume. Soprannominato il Vate, cioè "il profeta", fu cantore dell'Italia umbertina e occupò una posizione preminente nella letteratura italiana dal 1889 al 1910 circa e nella vita politica dal 1914 al 1924, venendo così celebrato dal nascente fascismo a cui aderì e di cui divenne simbolo, pur se i rapporti con tale movimento rimasero controversi nel tempo.
 
2.  L'impresa di Fiume consistette nella ribellione di alcuni reparti del Regio Esercito (circa 2600 uomini tra fanteria e artiglieria) al fine di occupare la città adriatica di Fiume, contesa tra l'Italia e il neonato Regno di Jugoslavia. Organizzata da un fronte politico a prevalenza nazionalista e guidata dal poeta Gabriele d'Annunzio, la spedizione raggiunse Fiume il 12 settembre 1919, proclamandone l'annessione al Regno d'Italia. L'occupazione dei "legionari" dannunziani durò 16 mesi con alterne vicende, tra cui la proclamazione della Reggenza Italiana del Carnaro. Avendo lo scopo di influire sulla Conferenza internazionale della pace, l'Impresa fiumana raggiunse l'epilogo con l'approvazione del Trattato di Rapallo. L'opposizione dei dannunziani all'applicazione del trattato portò il governo Giolitti ad intervenire con la forza, sgombrando Fiume durante le giornate del Natale 1920.


3.  Si fa qui riferimento alla celebre marcia su Roma, la manifestazione armata organizzata dal Partito Nazionale Fascista, guidato da Benito Mussolini, il cui successo ebbe come conseguenza l'ascesa al potere del partito stesso in Italia. Il 28 ottobre 1922, alcune decine di migliaia di militanti fascisti si diressero sulla capitale rivendicando dal sovrano la guida politica del Regno d'Italia e minacciando, in caso contrario, la presa del potere con la violenza. Negli anni immediatamente successivi, questo evento venne celebrato come il prologo della "rivoluzione mussoliniana” e il suo anniversario divenne il punto di riferimento per il conto degli anni secondo l'era fascista.

4.  Vittorio Emanuele III (Napoli, 11 novembre 1869 – Alessandria d'Egitto, 28 dicembre 1947) ultimo Re d'Italia (dal 1900 al 1946), succedette al padre Umberto I di Savoia. Dopo la marcia su Roma affidò il governo a Mussolini divenendo così un fantoccio del regime, privato d'ogni potere. Scappato da Roma dopo l'armistizio di Cassabile con gli alleati, lasciando così la capitale alla mercé dei tedeschi, morì esule nel 1947 ad Alessandria d'Egitto.

5.  Una delle tre Parche (divinità greche che presiedevano il Fato, su cui neppure Zeus aveva controllo) che intessevano lo stame della vita di ogni essere umano. Clòto, la tessitrice che dava il via alla nascita, Làchesi che svolgeva sul fuso lo stame della vita, decidendone la lunghezza e il destino e infine Atropo che inesorabile, con le cesoie recideva il filo, sancendo la morte.

6.  Giacomo Matteotti (Fratta Polesine, 22 maggio 1885 – Roma, 10 giugno 1924) è stato un politico, giornalista e antifascista italiano, segretario del Partito Socialista Unitario, formazione nata da una scissione del Partito Socialista Italiano. Fu rapito e assassinato da una squadra fascista capeggiata da Amerigo Dumini, per volontà quasi certa di Benito Mussolini, a causa delle sue denunce dei brogli elettorali attuati dalla nascente dittatura nelle elezioni del 6 aprile 1924, e delle sue indagini sulla corruzione del governo, in particolare nella vicenda delle tangenti della concessione petrolifera alla Sinclair Oil. Matteotti, nel giorno del suo omicidio avrebbe dovuto infatti presentare un nuovo discorso alla Camera dei deputati in cui avrebbe rivelato le sue scoperte riguardanti lo scandalo finanziario coinvolgente anche Arnaldo Mussolini, fratello del duce. Il corpo di Matteotti fu ritrovato circa due mesi dopo. In seguito, durante la Resistenza Italiana il PSI costituì le Brigate Matteotti, che ebbero tra le loro file, come dirigente, Sandro Pertini, già compagno di lotta del deputato veneto.

7.  Cioè: "Colui al quale il delitto porta giovamento, quello ne è l'autore" (Lucio Anneo Seneca, Medea, III, vv. 500-501)

8.  Nella personificazione nazionale dell'Italia, la corona turrita è una corona muraria con relative torri indossata da una giovane donna. Questa rappresentazione allegorica, che è tipica dell'araldica civica italiana, soprattutto di quella relativa ai comuni medioevali, trae le sue origini dall'antica Roma e prima ancora dalla dea anatolica Cibele che così veniva raffigurata.


9.  “Esperia” è il nome con cui nell'antichità veniva identificata l'Italia. Il nome derivava dalla radice greca “hespera” cioè “occidente” e in riferimento al tramonto e dunque alla sera, era il nome della personificazione del pianeta Venere nella mitologia greca.

10.  Francesco Petrarca, Canzoniere, CXXVIII, vv. 33-35

11.  Dante Alighieri, Inferno, Canto III, v. 64